Sacha Biazzo e le inchieste di Backstair
Che cos'è Backstair?
«Backstair è il team d’inchiesta di Fanpage.it», ci spiega Sacha Biazzo in una breve introduzione al file che ci ha mandato per rispondere alle nostre domande.
Questo team è «nato tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta seriale Bloody Money, un’investigazione sotto copertura sul traffico dei rifiuti e la corruzione politica realizzata attraverso l’utilizzo di insider».
All’epoca, l’inchiesta – che puoi rivedere qui – aveva suscitato un dibattito molto interessante (a tratti un po’ autoreferenziale, come spesso accade nei dibattiti sul giornalismo) sull’opportunità o meno di utilizzare un “agente provocatore” per un’inchiesta giornalistica.
Su Il Foglio, il lavoro di Fanpage venne addirittura definito “iniziativa pseudo-giornalistica”.
Una definizione quantomeno curiosa, se consideriamo l’impatto che quest’inchiesta ha avuto tre anni dopo.
«L’obiettivo di Backstair», prosegue Sacha, «è quello di produrre video-inchieste che originano dal lavoro giornalistico interno al team e alla redazione del giornale o, in alcuni casi, su proposta di collaboratori esterni. La cifra distintiva di Backstair è quella delle investigazioni sotto copertura o comunque con l’utilizzo di fonti dall’interno, supportata da un rigoroso lavoro di indagine giornalistica, con una particolare attenzione alla resa visiva e narrativa del prodotto. La funzione è quella di portare all’attenzione di un pubblico anche non per forza avvezzo alle inchieste (da qui l’utilizzo anche di particolari stilemi visivi e narrativi) temi quanto più disparati, dalla criminalità organizzata alla corruzione politica».
Come si costruisce un gruppo di lavoro come Backstair?
«Backstair è un gruppo di lavoro fisso, costituito da giornalisti e videomaker, ma anche un gruppo di lavoro fluido che si riorganizza per ogni singolo progetto seguito, avvalendosi di diverse forme di collaborazione, sia all’interno della redazione di Fanpage sia all’esterno. Per ogni singolo progetto, infatti, si costituisce una squadra nella quale sono presenti, oltre ai membri fissi del team, giornalisti interni o esterni alla redazione e insider. L’insider può essere un giornalista sotto copertura o, anche, una persona che per le proprie qualità personali risulta particolarmente adatta al compito. Questa è la figura più difficile da individuare e da formare per intraprendere un progetto».
Come lavorate a un’inchiesta? Per quanto tempo? Vi date delle scadenze oppure i lavori escono solo quando sono pronti?
«Un’inchiesta Backstair non nasce a tavolino, ma quando convergono più fattori. Prima di tutto l’individuazione di una notizia o di una potenziale notizia, che arriva dalle nostre fonti o dal lavoro capillare sul territorio svolto dai giornalisti e dai video-reporter di Fanpage. Il secondo fattore è quello di riuscire a penetrare nell’ambiente che vogliamo investigare.
Riuscire ad avere informazioni dall’interno è il modello più fruttuoso per l’indagine giornalistica. Oggi questo si può fare o grazie a dei whistleblower, che portano fuori da un ambiente testimonianze e documenti segreti, oppure facendo il percorso inverso, cioè con un giornalista o un insider che entra in un universo e lo racconta. È un processo estremamente delicato che richiede molto tempo e che deve essere giustificato da un forte interesse pubblico verso quella notizia. Non è possibile prevedere in anticipo le tempistiche di questo processo, per cui non ci diamo delle scadenze. Alcuni nostri progetti sono iniziati 3 anni fa e non si sono ancora conclusi, altri sono durati pochi mesi. La pubblicazione non per forza è l’ultimo step di un progetto, può succedere, infatti, che alcune inchieste si arricchiscano di nuove testimonianze tra una puntata e l’altra di una serie, tanto da giustificare una nuova puntata».
Sul tuo Facebook hai scritto «Solo per verificare una frase di 12 parole abbiamo percorso tra Napoli, Bologna, Foggia, Milano, Roma, Venezia e Genova circa 6000 chilometri in 10 giorni». Ci racconti qualcosa di questo processo di verifica?
Quando riesci a penetrare un particolare ambiente con un insider vieni in possesso di una mole indefinita di informazioni, ma questo è solo l’inizio di un lavoro giornalistico certosino per verificare ogni singola circostanza di cui si viene a conoscenza. Questo lavoro va fatto interpellando e confrontando tra loro diverse fonti qualificate, raccogliendo e vagliando atti e documentazione ufficiale. Nel caso specifico, avevamo raccolto tramite il nostro insider la dichiarazione di un sottosegretario del Governo che affermava delle cose gravissime buttando particolare discredito su una forza armata. Il fatto che a pronunciarle fosse un deputato, oltre che sottosegretario, era di per sé una notizia, ma prima di pubblicare quella dichiarazione abbiamo sentito decine e decine di fonti in giro per l’Italia che per la natura sensibile della questione abbiamo dovuto incontrare di persona costringendoci a un tour de force di viaggi incredibile.
Sempre sul tuo Facebook hai scritto: «Ogni volta che usciamo con un pezzo che fa discutere c’è qualcuno che adombra l’ipotesi che ci sia una manina che ci passi dei misteriosi dossier preconfezionati, una volta sono gli americani, un’altra volta è il mossad». Secondo te perché succede questo? Che idea ti sei fatto?
In Italia molto spesso si scambia il giornalismo giudiziario con il giornalismo d’inchiesta, come se il giornalismo d’inchiesta fosse il giornalismo che segue le inchieste fatte della magistratura e non quelle fatte dai giornalisti. In più è sempre più raro trovare inchieste, non solo in video, condotte per lunghi periodi di tempo e da più di un giornalista.
Questo tipo di approccio ha disabituato anche i fruitori dei contenuti ad avere a che fare con il giornalismo investigativo e i prodotti di Backstair finiscono per apparire come delle anomalie nel panorama mediatico italiano, tanto più perché realizzati da un giornale online.
Questo essere un po’ anomali, unito al fatto che molti dei nostri lavori hanno fatto esplodere dei polveroni, ha portato qualcuno a poter insinuare che, come per tanti misteri italiani, anche dietro le nostre inchieste ci potesse essere la “manina dei servizi”. Tra l’altro questa non è neanche l’accusa più grave che ci è stata rivolta in questi anni, anche da esimi colleghi che magari lavorano per delle testate che realmente hanno avuto giornalisti al soldo dei servizi segreti.
Basterebbe guardare al lavoro che si fa all’estero, come per esempio quello di Al Jazeera Investigation, per capire, invece, che il giornalismo investigativo sotto copertura è possibile, che ha un grande potenziale, ma che richiede un notevole investimento di tempo e di risorse, che però molti editori non vogliono o non riescono a mettere sul piatto».
Pochissimi media riprendono il vostro lavoro: è una cosa su cui vi confrontate?
Non è sempre vero. L’ultimo lavoro che abbiamo fatto, Follow the money, è stato ripreso da quasi tutte le televisioni italiane e da molti giornali. È vero anche che un certo tipo di notizie non riesce a superare il gatekeeping dei media mainstream, soprattutto se non diventano oggetto del dibattito politico, dibattito tanto amato dai giornalisti e un po’ meno dai lettori, in cui, però, le inchieste ne escono sempre un po’ anestetizzate, fermandosi al livello di semplice querelle tra esponenti di partiti.
Questo ci fa interrogare molto sul livello di salute del giornalismo italiano. D’altra parte lascia anche aperta una prateria di notizie e di storie per i giornalisti d’inchiesta che hanno voglia di metterci le mani sopra.
Quando pubblicammo un’investigazione sotto copertura sul caso dell’Istituto Provolo di Verona, in cui per la prima volta un prete confessava gli abusi sui bambini sordomuti e svelava un sistema per coprire i preti accusati di pedofilia che coinvolgeva anche il Vaticano, paradossalmente nessun giornale italiano riprese la notizia, mentre in altri paesi, dall’Argentina alla Polonia, ci aprirono i telegiornali per giorni.
Quel video, però, solo su Youtube ha totalizzato 10 milioni di visualizzazioni. La differenza la faranno sempre i fruitori dei contenuti che scelgono cosa guardare.
Qual è l’impatto delle inchieste di Backstair? Lo misurate in qualche modo?
Il giornalismo d’inchiesta nasce dalla volontà di denunciare qualcosa che non funziona affinché quel qualcosa cambi. Alcuni nostri lavori hanno portato a delle inchieste giudiziarie che hanno avuto un notevole impatto sulla realtà o hanno influito su alcune decisioni pubbliche nazionali o locali. Il cambiamento certe volte può essere anche soltanto culturale e quindi non quantificabile, ma è su questo metro di giudizio che valuterei l’impatto di un progetto.
È ovvio che tutto questo si realizza quando un progetto riesce ad arrivare ad un grande numero di persone e ad entrare nel dibattito pubblico.
Come si rende sostenibile il lavoro di gruppi come Backstair?
Questa è una domanda che bisognerebbe porre al nostro editore, Ciaopeople, che ha scelto coraggiosamente di investire in un progetto del genere che richiede un grande impegno di risorse, di tempo e di competenze.
Dal nostro punto di vista, che è prettamente giornalistico, una realtà come Backstair che è integrata all’interno di una redazione è una risorsa perché diventa un ricettacolo di storie e di segnalazioni di cui beneficia anche tutto il resto del giornale.
Alcuni dei nostri progetti che non evolvono in progetti d’inchiesta, ad esempio, diventano invece delle notizie o degli approfondimenti di cronaca che possono essere sviluppati da altre aree. In più un gruppo di lavoro fluido come il nostro riesce a mettere a frutto le competenze più disparate diventando anche un collante e un momento di incontro all’interno del comparto redazionale.