La difesa dell’informazione non si fa senza soldi

C’è uno specifico frammento del lavoro giornalistico che è particolarmente costoso: la responsabilità di ciò di cui si scrive.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

La difesa della verità, intesa come diritto al racconto e all’analisi di ciò che si osserva, è il perno di ogni società moderna funzionante. Aiuta il dibattito, aumenta la coscienza collettiva e individuale, guida (l’individuo e la società) nelle scelte da compiere, è la base di quella famosa “cassetta degli attrezzi” che serve poi per muoversi nel mondo che ci circonda. Se parliamo di “sistema di valori” dei media, intendiamo proprio questo.

 

Nella retorica che spesso il mondo del giornalismo usa per descrivere se stesso, la “difesa dell’informazione” è un esercizio quotidiano, essenziale ma sempre più complicato. Lunedì 15 aprile il quotidiano sudafricano Daily Maverick non ha pubblicato notizie e il sito è stato messo offline. Le pubblicazioni online – il sito fa 10 milioni di visitatori unici al mese – sono riprese martedì 16 aprile. Redazione, direzione e editore hanno voluto così attirare l’attenzione del mondo “sullo stato dell’informazione” in quello che è stato definito in un editoriale “l’anno elettorale definitivo”, con oltre 2 miliardi di persone che si recheranno o si sono già recate alle urne in almeno 64 Paesi del mondo. Stati Uniti e Russia compresi. E Sudafrica, ovviamente.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Va detta una cosa: è stata (anche) un’operazione di marketing, comunicata in modo esplicito. Il martedì mattina il giornale ha fatto 1.000 abbonamenti (ha una platea di 30.000 abbonati e la piattaforma non ha un paywall e la pubblicità). Numeri che ci fanno dire: ben fatto Maverick!

 

Il Daily Maverick, mettendo da parte il tema della libertà di stampa, pone l’accento della sua protesta sulla sostenibilità economica del giornalismo all’interno di un’ecosistema sempre più tossico, soffermandosi sul business delle notizie e la crisi che sta attraversando. Il panorama sudafricano è particolarmente sconfortante: negli ultimi 10 anni l’industria dei media sudafricana ha perso metà della sua forza lavoro e 375 giornali cartacei mentre chi portava fatturato, gli inserzionisti pubblicitari, si sono progressivamente spostati verso i giganti della tecnologia online. Il danno è stato duplice, in particolare in mercati come quello sudafricano: Meta, Alphabet o TikTok in Sudafrica non hanno una sede e versano le imposte dove hanno la sede fiscale.

 

Secondo l’Independent Advertising Bureau, in Sudafrica Meta e Alphabet dominano il mercato pubblicitario con una quota del 97%, uno sbilanciamento che secondo la redazione del Maverick mette a rischio il rapporto fiduciario tra il pubblico e i media, per i quali la crisi economica significa inesorabilmente tagli e, quindi, crollo della qualità. Questo studio di Open Society Foundation sullo stato del  giornalismo in 18 paesi ex-sovietici rivela che dal 2009 i media in quest’area del mondo hanno perso tra il 30 e il 60% delle entrate pubblicitarie. E di esempi ce ne sono centinaia, per ogni area del mondo.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Questo cambiamento nel modello di business dei media è avvenuto a un ritmo straordinario che ha letteralmente travolto l’industria  globale dell’informazione, erodendone lo spazio vitale fino a – in molti casi – farlo sparire. Nella maggior parte dei casi questa crisi è dovuta anche a scelte commerciali errate fatte da parte dei management delle società editoriali: in Italia, per esempio, con Internet una certa informazione – non quella migliore, che veniva sempre riservata alla carta – è diventata improvvisamente gratuita per tutti e questo modello è andato avanti quasi vent’anni prima che anche i grandi gruppi editoriali ricominciassero a chiedere soldi ai loro lettori. Siamo ben lontani, come industria, ad aver capito la lezione: i social network vengono ancora usati sia come fonte per le notizie (e vabbè) che come veicolo principale di distribuzione, ma il pubblico che sta lì, oramai, non è più del giornale ma della piattaforma, in una retorica di “libertà assoluta” in cui viene detto tutto e il suo contrario e in cui il singolo giornale (inteso come “prodotto editoriale”) fa la fine della piuma di Forrest Gump. 

 

Il problema è che il giornalismo non nasce dal nulla. E c’è uno specifico frammento del lavoro giornalistico che è particolarmente costoso: la responsabilità di ciò di cui si scrive. Costa perché impiega il tempo del cronista per lo studio, la specializzazione e la verifica, costa perché fa crollare il sensazionalismo delle notizie in favore della ponderazione, costa perché spesso impiega risorse, mezzi, strumenti e personale per mesi. Anni, a volte.

 

Ma, soprattutto, costa perché è un processo che non si vede: quello che, da lettori, vediamo è il risultato di tutto questo, ovvero il prodotto giornalistico.

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