Le soluzioni degli altri
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
L’impatto del fenomeno Airbnb sulla vita delle comunità e sulle persone che lo sfruttano per sopravvivere
Georges ha passato i sessant’anni ma ogni mattina si continua a svegliare all’alba, mentre Christine dorme ancora. Fa colazione da solo, in silenzio, si mette in macchina e percorre la cinquantina di chilometri che lo separano dal lavoro. Da più di vent’anni abitano a Beaumont-de-Pertuis, un villaggio di un migliaio di abitanti nel Luberon, a qualche decina di chilometri a nord di Marsiglia, in Provenza, in una villetta tutta loro, di quelle basse, a un piano solo, con un bel pezzo di giardino e persino una piscina, residuo di una ricchezza di cui loro malgrado non godono più.
Georges era andato in pensione un paio di anni fa, ma è dovuto tornare sui suoi passi e bussare di nuovo al suo vecchio datore di lavoro. Christine, che quando i suoi figli e quelli dei dei vicini erano piccoli aveva messo su un nido privato, si è dovuta reinventare come lavoratrice a intermittenza in fabbriche alimentari o imprese di pulizia. Dopo che i figli hanno finito gli studi e sono usciti di casa, i due confidavano di aver abbastanza risorse per mantenere il loro stile di vita: rilassarsi, viaggiare, magari fare i nonni a tempo pieno, ma la crisi con loro non è stata gentile. Georges ha studiato, è ingegnere nucleare, e grazie al suo profilo e alla sua esperienza ha riottenuto una parte dello stipendio. Christine invece, che di specializzazioni non ne ha e che si avvicina anche lei ai sessant’anni, non riesce a superare i 600 o 700 euro al mese e nemmeno a lavorare abbastanza per poter accedere al sostegno di disoccupazione.
Se glielo avessimo detto una decina di anni fa probabilmente lo avrebbero escluso ridendo. Eppure, ora, qualche centinaio di euro in più o in meno in tasca possono significare molto. Per questo si sono iscritti a Airbnb. Nella villetta in cima a una collina, a pochi metri dal cartello che segnala la fine del paese, Christine e Georges fino a pochi anni prima dividevano la loro casa coi tre figli, che si dividevano a loro volta due stanze in tre. Ora, che i figli sono grandi, e due su tre lavorano e sono andati a vivere altrove, di quelle camere non sapevano che fare. Non volevano tenerle identiche a se stesse, a mo’ di museo dell’adolescenza dei figli. Non avevano bisogno di altro spazio per eventuale studio, laboratorio o ripostiglio. Allora hanno deciso di tenerle com’erano. In una ci sta il figlio grande, disoccupato da qualche mese e in crisi esistenziale. L’altra è su Airbnb.
Durante l’estate da quelle parti passano in molti e qualcuno si ferma li da loro qualche giorno, pagando 40 euro a notte pulizie comprese, colazione sana e abbondante e, volendo aggiungere una decina di euro, una cena cucinata da Christine (parecchio buona) condita da del buon vino e delle gran belle chiacchiere. Nelle ultime settimane, racconta Christine, hanno ospitato tre coppie. Sei giorni di affitto in tutto, che si tramutano in 240 euro in più nelle loro tasche. Non è molto, ma contando che è estate e l’orto che hanno nel giardino assicura loro frutta e verdura in abbondanza, con quei soldi ci fanno almeno due settimane di spesa.
Nella provincia francese, nelle terre e nelle comunità dimenticate dal centralismo parigicentrico dove è pasturata, cresciuta ed esplosa la bolla di rabbia dei gilet gialli, la storia di Christine e Georges non è per niente unica. A una cinquantina di chilometri da lì, a Forcalquier, un’altro dei borghi sparsi nel Luberon, anche Jeanne si sveglia presto. Ha superato in cinquant’anni, si è trasferita nel Sud dalla Normandia una decina di anni prima e ora lavora in un’azienda agricola fuori città. Abita in una casa su tre piani tutta scassata che piano piano sta mettendo a posto da sola. Dei tre piani ne occupa solo uno, l’ultimo. Il primo lo ha prestato a una coppia di richiedenti asilo africani. Quello in mezzo, esattamente come la camera che fu dei figli di Christine e Georges, lo mette in affitto ai turisti, notte per notte, su Airbnb.
Non chiede tanti soldi: poco meno di 30 euro per notte, pulizie comprese (che fa lei). I mesi in cui affitta 10 notti al mese, insomma, si paga le spese senza problemi. I due figli sono autonomi da qualche anno e lei si è separata dal compagno. Quei soldi le fanno veramente comodo e in più, racconta, la maggior parte delle volte gli incontri che fa sono delle belle esperienze. Certo, ammette, c’è chi arriva pensando che sia un albergo o chi non sopporta l’ambiente spartano, ma nel complesso sono esperienze che arricchiscono. Storie come queste non sono limitate alla provincia dell’Impero. Succedono anche nelle grandi città, anche se, a vedere le statistiche, la percentuale di stanze in condivisione affittate nelle città turistiche è molto bassa, intorno al 15 per cento.
Una di queste è a Glasgow, nel quartiere di Ibrox, a poche centinaia di metri dallo stadio di Glasgow, dove Alice e John affittano su Airbnb le due stanze che furono dei loro coinquilini e lo fanno con tanta dedizione da essere diventati Superhost. Le recensioni nel loro profilo — più di 200 — sono tutte estremamente positive. Parlano di un ambiente stimolante, di condivisione, di chiacchiere e di amicizia. Hanno quasi 40 anni e mentre Alice lavora come educatrice e porta i ragazzini nei musei a insegnare loro che cos’è la natura, John, che assisteva ragazzi autistici, ha appena deciso di cambiare vita e di mettersi a fare il falegname.
Il loro appartamento ha ancora l’odore delle case degli studenti. Anche loro chiedono circa 30 euro a notte, più qualche euro di pulizia che fanno loro stessi. Di gente gliene gira parecchia in casa, racconta John mentre sorseggia il caffè della mattina. Essendo impossibilitati a viaggiare per mancanza di soldi, dice con un gran sorriso, così è come vedere il mondo che passa a casa loro. Di fianco alla tazzona di caffè allungato, John ha un libro aperto, si intitola Poverty Safari ed è scritto da un rapper con il gusto per la sociologia e una penna molto frizzante che si chiama Darren McGarvey. John ha una forte anima politica e attivista. Sa bene che Airbnb quasi sempre è la maschera sghignazzante di un capitalismo che vende una storiella falsa e che non fa altro che accumulare capitale a una velocità inedita nella Storia. Eppure, come Christine, Georges e Jeanne, anche lui crede che ci sia qualcosa di buono da prendere da questa piattaforma. Lui e Alice, d’altronde, ci pagano una parte dell’affitto. Non è poco.
Le storie di Christine e Georges, di Jeanne e di John e Alice non sono la maggioranza, eppure esistono e non sono poche. È la faccia buona di Airbnb? Può darsi. Di certo è la maschera che il colosso californiano sfrutta per ripulirsi davanti all’opinione pubblica. Sul proprio blog, infatti, non esita a pubblicare statistiche inverificabili che, un po’ come le torce dietro i gattini, trasformano un fenomeno che in effetti esiste, benché minoritario, in tigri giganti.
A parlare con tutti loro, ospiti appassionati e socievoli, ma anche lucidi e radicali nelle loro diverse critiche del sistema che capitalista che li sta schiacciando, viene da pensare che Airbnb alla fine sia solo uno strumento e, come tale, che i suoi effetti sulla realtà dipendano da chi e come lo impugna e lo usa. Come un coltello può fare una strage ma può anche dividere equamente un pezzo di pane alla mensa dei poveri, Airbnb può essere l’arma in mano ai grandi proprietari e alle società di speculazione immobiliare per massimizzare i profitti minimizzando gli sforzi. Ma nel contempo, per qualcuno, può anche essere lo strumento per arrivare a fine mese o per avere la libertà di poter affrontare il rischio di cambiare lavoro e mettersi in proprio. Dipende. Ma non dipende soltanto da chi le case ce le ha, le accumula e le mette online togliendole al mercato immobiliare residenziale. Dipende anche da chi la piattaforma la usa. Dipende da tutti noi.
Ma anche questa versione regge solo fino a un certo punto. È vero che Airbnb permette, dal basso, di introdurre un sacco di elementi di risparmio, di redistribuzione, di abbassamento dell’impatto ambientale e in parte addirittura di riconnessione del tessuto sociale. Ma, dall’alto, è inarrestabile nel suo agire al contrario, permettendo a grandi proprietari immobiliari e società di speculazione di aumentare di circa tre volte il lucro sui propri possedimenti a scapito dell’abitabilità e della socialità del quartiere e, alla lunga, sulla vivibilità di moltissime aree urbane.
Come gran parte dei fenomeni che chiamiamo sharing economy (anche se spesso è vecchia e sporca come il capitalismo, e di condivisione ha poco più del retrogusto) il fenomeno di Airbnb ci porta al cuore di un problema che non è facile da analizzare, né, di conseguenza, da combattere. Se nel contesto del vecchio capitalismo industriale era abbastanza semplice da inquadrare chi fosse lo sfruttatore e chi lo sfruttato, in questo caso ci troviamo a muoverci in una palude insidiosa. Vittime e carnefici di noi stessi, con stipendi da poveri ma desideri da ricchi, ci troviamo di fronte a una piattaforma che permette a molti di noi di viaggiare pur se non potremmo permettercelo, ma nello stesso tempo la stessa piattaforma ci toglie il terreno sotto i piedi quando cerchiamo una casa dove vivere nelle nostre città. Difficile capire come agire, ma difficile anche pensare di potersi permettere di non prendere una posizione su un tema che ci riguarda così da vicino.
Mentre la scalata di Airbnb verso la conquista del primato delle locazioni turistiche continua e mentre milioni di persone utilizzano la piattaforma sia come host che come guest senza problematizzare per nulla il loro gesto, che è invece a tutti gli effetti un gesto politico, in molti altri, amministrazioni, collettivi, associazioni di cittadini, si stanno attivando per contrastare l’invasione e la distruzione del tessuto sociale che la piattaforma sta facilitando in molti territori sparsi dovunque per il mondo.
La guerra è lunga, e questo viaggio continua.
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