Il monologo di Sanremo è un format

Antonio Pavolini, a proposito dei monologhi di Sanremo, scrive: «Nessuno, proprio nessuno che si chieda come mai, in quel momento e su quel palco, si svolgano delle cose che chiamiamo “monologhi”. E ancora: con quale logica. con quale modello economico. che tipo di leve, emotive e razionali, esercitino. No, siamo qui a discutere nel merito, finendo per legittimare il metodo».

Ella Marciello, prima di analizzare il monologo di Chiara Ferragni nel merito,
ha proposto proprio un’analisi di metodo: «dovremmo interrogarci come collettività molto a fondo sul perché la presenza delle donne debba costantemente essere motivata e giustificata. Perché le loro parole debbano avere dieci strati di lettura, debbano contenere messaggi importanti e una intrinseca pesantezza emotiva».

In generale, quel che succede sul palco dell’Ariston ha grande risonanza perché raggiunge, bene o male, almeno 10 milioni di persone più tutte quelle che si guardano le varie parti in differita, che le commentano sui social, al bar, sui giornali.

Sanremo ha oscurato persino il terremoto in Turchia e Siria, persino il delirio sull’insegnare a sparare nelle scuole.

Attraverso il formato-monologo, dal Festival – che non è solo canzonette – arrivano messaggi riproduttivi della cultura dominante. Arrivano anche messaggi estremamente condivisibili, per me che scrivo, sui temi dei diritti civili.

Difficilmente ne arriva uno sul tema cruciale della nostra contemporaneità: il fallimento del capitalismo. Il sistema di riproduzione delle disuguaglianze (vedi, per esempio, il pezzo su povertà e precari che abbiamo pubblicato nel nostro progetto A Brave New Europe).

E questo perché Sanremo è, oltre a un evento pop, anche un perfetto motore riproduttivo di disuguaglianze.

Fortunatamente, lo spazio della conversazione pubblica oggi consente anche di spacchettare i suoi messaggi e analizzarli, per chi ne ha voglia

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