La moltitudine del tennista
Non si vince più da soli: senza collaborazione, cooperazione e affiatamento di squadra, l’individuo non vale nulla
Non si vince più da soli: senza collaborazione, cooperazione e affiatamento di squadra, l’individuo non vale nulla
Dove siamo Noi? è il primo numero di Piano, la rivista monocromatica annuale di Slow News, che è uscito a maggio del 2024 in 1483 copie stampate artigianalmente dalla serigrafia Legno di Milano. Questo numero è dedicato alla comunità, declinata da 10 punti di vista diversi: dal lavoro, all’ambiente, dall’energia alla diversità, dalla mobilità all’abitare, […]
Jannik Sinner agli US Open, 25 agosto 2024. Foto Hameltion, da Wikipedia. Licenza CC BY-SA 4.0
Questo articolo è stato pubblicato nel numero 1 di Piano, quello rosso, uscito nel maggio del 2024 senza data di scadenza. Nella sua forma originale, come tutti gli altri 9 articoli di Piano, anche questo ha diversi livelli grafici di lettura, nonché una versione velocizzata 2x e riassunta da un essere umano.
Ci piace dire che il valore di Piano non equivale alla somma dei valori dei singoli articoli che lo compongono. E non perché gli articoli siano insipidi o scadenti, tutt’altro. Piano di carta è una esperienza di lettura, ma è anche un oggetto tipografico non convenzionale da collezione.
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Il tennis è lo sport diavolo. È una disciplina che entra nella mente, logora, porta allo sfinimento psicologico: in campo, si è soli; la racchetta sa essere la migliore alleata, ma anche la peggior nemica; nessuno, apparentemente, può essere d’aiuto.
Il tennis è una scuola di vita. Di fatto, costringe il tennista, che sia un professionista, un aspirante tale o un semplice amatore, a cavarsela da solo. Il problem solving è all’ordine del giorno, sia in partita che in allenamento. È uno sport che porta a una continua auto-analisi e, a volte, manda letteralmente fuori di testa. È la disciplina individuale per eccellenza, è il regno dell’Io. Nel bene e nel male.
Come può allora il Noi entrare prepotentemente in questo mondo? E in che modo i concetti di squadra e di know how hanno cambiato il tennis moderno sino a trasformarlo (quasi) in uno sport di squadra? Per comprendere il presente, come spesso accade, è necessario partire dal passato. Il tennis, per come lo conosciamo noi, nacque nel 1968 con l’inizio della cosiddetta Era Open, che aprì i tornei ai professionisti portando tutti i migliori giocatori ad affrontarsi tra loro nei più grandi palcoscenici del mondo, su un calendario stagionale di eventi che assegnano punti per una classifica comune: il ranking atp per gli uomini, quello wta per le donne.
Di lì a poco iniziò il boom del tennis italiano, raccontato dal libro e documentario Una Squadra di Domenico Procacci, un’esplosione che portò alla vittoria della prima (e unica fino a pochi mesi fa) Coppa Davis per l’Italia. Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Antonio Zugarelli, capitanati da Nicola Pietrangeli, diventarono negli anni Settanta gli eroi di una intera generazione.
Ma come veniva vissuto, all’epoca, il circuito? I tennisti viaggiavano quasi sempre da soli e, spesso e volentieri, si supportavano a vicenda. «Non ci si rende conto di quanto fosse diverso rispetto a oggi», ha spesso ripetuto Claudio Panatta, fratello di Adriano e buon giocatore nel decennio successivo. Nell’epoca senza social, priva di telefoni cellulari e ancora priva dei team che si videro poi a partire dai primi anni Duemila, si era portati, quasi costretti, a fare gruppo, ad aiutarsi a vicenda e a vivere il circuito in maniera meno seriosa e anche più goliardica. Il Noi era un noi di amicizia, di empatia.
Quando il circuito, dagli anni Novanta in poi, cominciò a essere sempre più professionale e l’aspetto fisico, oltre che tecnico, divenne predominante, comparvero i primi team, con gli allenatori, i preparatori fisici, qualche manager. I dettagli di ogni genere iniziavano a fare la differenza. Il know how non veniva tramandato, bensì nascosto, per non avvantaggiare gli avversari. Fu la sconfitta del Noi e il ritorno all’individualità, salvo rare eccezioni.
A un livello più basso, invece, nel circuito Challenger, che si potrebbe paragonare, nel mondo del calcio, a una Serie B, valeva ancora la regola del tennista che aiuta il collega. Non perché i giocatori non lavorassero con allenatori e preparatori, ma poiché non vi era la disponibilità economica per farli viaggiare per il mondo: nei tornei il tennista ha l’hotel pagato, ma viaggi, vitto e alloggio dei collaboratori è a carico del giocatore stesso. Questo elemento, apparentemente di scarso significato, diventerà importante più avanti.
Oggi, in Italia, il tennis è tornato a vivere del Noi più puro. In quattro diverse diramazioni che portano a un unico grande punto d’arrivo: il successo sportivo e umano dell’atleta.
Jannik Sinner, dopo ogni torneo vinto, ringrazia il proprio team. Ne fanno parte due allenatori — Simone Vagnozzi e Darren Cahill —, un preparatore fisico, un fisioterapista, un osteopata, due agenti, un manager e una
società di mental coaching.
Il rapporto tra atleta e allenatore è accomunabile a quello di una coppia. Nel bene e nel male. È un connubio di difficile gestione. «Vedo più il mio coach che il mio partner» è una frase ricorrente nel circuito professionistico. Le ore e i giorni da vivere insieme al team sono tanti: dai viaggi agli allenamenti, da pranzi e cene sino, a volte, alla condivisione della stessa camera d’albergo.
Avere un team allargato e affiatato a supporto è fondamentale: per passare del tempo di qualità, per studiare la tattica,
per impostare le strategie e per prepararsi al meglio fisicamente, recuperando dagli acciacchi che naturalmente si verificano durante i tornei e le sedute di allenamento. Tutto ciò ha uno scopo unico, serve nell’unico momento in cui si è soli, sul campo di gioco, durante la partita, anche se in realtà tutta la squadra è in campo con l’atleta. Dalle sedie in prima fila a disposizione della squadra, uno sguardo può dare energia, una parola può ridare fiducia, una indicazione può svoltare una partita. È l’Io che diventa Noi, nello sport più individuale e solitario che esista.
Rispetto al passato, da alcuni anni le conoscenze, a tutti i livelli, vengono condivise e tramandate. La Federazione Italiana Tennis e Padel ha scelto di supportare i team privati con professionisti di vario genere: dai preparatori atletici ai tecnici ai fisioterapisti, ai video-analisti e ai mental coach. Una scelta che può apparire banale ma che, sino a una decina di anni fa, non era stata mai presa realmente in considerazione. Anche gli allenatori dei singoli giocatori e, più in generale, le squadre dei tennisti e delle tenniste italiane, si confrontano e si aiutano. Fanno gruppo. In un modo ulteriore, hanno creato un Noi allargato.
Ci sono giocatori italiani che, tra il 1995 e i primi anni del nuovo millennio, per molti motivi non sono riusciti a emergere. Tra questi ce ne sono molti che hanno scelto la strada del coaching. Vagnozzi, l’allenatore di Sinner, è uno
di loro. All’epoca erano tennisti che si aiutavano a vicenda, perché gli allenatori itineranti non potevano permetterseli. Oggi continuano a farlo, e si supportano tra loro da allenatori. L’uno con l’altro, senza invidie, rafforzando ancora di più l’idea del Noi.
Il quarto elemento è la spinta reciproca che gli atleti italiani più affermati stanno dando agli altri connazionali, spesso giovani e in rampa di lancio. «Se lavoro come Arnaldi posso arrivare in alto», o ancora, «se Jasmine Paolini ha vinto Dubai posso provarci anche io». Riflessioni positive di questo tipo creano l’effetto traino o, come l’ha ribattezzato Matteo Berrettini, l’effetto molla: tutti sono portati a crederci di più, a ispirarsi alla professionalità altrui e, non meno importante, a creare una sana competizione interna.
Uno dei segreti dell’Italia tennistica, che oggi è molto più del solo Jannik Sinner, è il ritrovato e sempre più forte senso di appartenenza, di amicizia, empatia, supporto reciproco. L’individuo che diventa squadra. La squadra che costruisce l’individuo. L’io che scompare e lascia spazio al Noi ⬣
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