Decolonizzare le Olimpiadi
Come approfittare di un evento mondiale per aggiustare le cose
Il sogno olimpico
Il sogno olimpico è una di quelle cose che, alla generazione X, è stata inculcata per bene. Ricordo giornate intere passate a capire i regolamenti di tutti gli sport possibili. Oggi fra quelli che ci sono a Parigi 2024 forse non conosco bene giusto lo skateboard e il badminton; a esultare per le vittorie; a soffrire per la scherma, per gli Abbagnale, per le telecronache con la voce roca, a tenere la mano sul cuore per l’inno di Mameli, ché nessuno ci aveva ancora spiegato bene come stessero le cose, da bambini; a deludermi per il doping. La prima Olimpiade di cui ho piena memoria è Seoul 1988. Sono sicuro che da qualche parte mi sia rimasto qualcosa anche di Los Angeles, ma Seoul ce l’ho ben vivida e presente nei ricordi: c’era pure lo speciale Topolino con una storia che parlava anche di quella separazione fra Nord e Sud che non capivo bene e che avrei capito tempo dopo. Sono passati trentasei anni da Seoul. E oggi guardo le Olimpiadi con i miei figli.
Lo sguardo principiante
Mio figlio si immagina dentro a uno dei tanti sport che vediamo. Si costruisce l’attrezzatura per tirare di scherma con uno scolapasta e la punta di plastica di un ombrellone che ha scovato nello sgabuzzino. Mia figlia si appassiona alle storie delle persone. Entrambi ci riempiono letteralmente di domande.
Qual è la differenza fra marcia e maratona? La marcia è lo sport più duro di tutti? Qualcuno è mai morto per il surf? Michael Jordan è morto? Perché nel basket vincono sempre gli Stati Uniti? – una volta no! – Cos’è il salto triplo? Quanti anni ha Errani? E Paolini? E Djokovic? Che bravi che sono ad arrivare alle Olimpiadi. Ma il golf è uno sport che inquina? Perché lei non dovrebbe essere felice: è arrivata quarta! Qual è il colore dell’Europa nei cinque cerchi? Quindi questi sono cosa, i quarti, gli ottavi? Con chi gioca? Perché non ci sono i giocatori veri nel calcio? A che ora è la pallavolo? Si può fare ginnastica ritmica se si è maschi? Ma Banksy è famoso in tutto il mondo? È inglese? Perché nessuno lo sa davvero? Ma le donne hanno sempre partecipato alle Olimpiadi?
A volte mi sento come se fossi considerato una specie di enciclopedia vivente. Mi fa piacere, ma spesso per rispondere a domande così puntuali devo per forza fare ricerca. Anche questo non mi dispiace, tutto sommato. Soprattutto, mi piace lo sguardo principiante con cui i bambini si approcciano a qualcosa che tendiamo a dare per scontato, costringendoci a elaborare un po’, a ricordarci che non è tutto semplice.
Il pensiero dominante
Più di tutti, i bambini e le bambine ci costringono a ripensare alle nostre categorie di pensiero. Non vedono niente di diverso fra persone diverse. Non in senso valoriale. Vedono solo, appunto, persone diverse fra loro. Non diventano fan dei superpoteri o delle divisioni o della vittoria. Tifano, tantissimo, ma non capiscono perché mai una giornalista dovrebbe incalzare una ragazza – «Ehi! Ma ha solo 19 anni, ed è stata bravissima!» – e non crederle quando dice che è contenta per il quarto posto. Alle Olimpiadi! Amano tifare “Italia”, ma non per questo vogliono colonizzare o dominare l’altro da noi. Sono capaci di riconoscere la bellezza quando la vedono. E le ingiustizie.
È difficile spiegare ai bambini il doppio standard occidentale – perché la bandiera di Israele c’è, con quello che fanno a Gaza? Perché la bandiera russa non c’è?
È difficile spiegare ai bambini che, sì, abbiamo tante libertà ma a che prezzo per noi e per gli altri. Perché sono così pochi, gli atleti del Congo?
È difficile spiegare ai bambini che ci sono persone che pensano solo alla vittoria, a essere di più, meglio. Perché quello ha detto che i secondi non vengono ricordati?
Ma la cosa più difficile è rendersi conto che loro, tutto sommato, sono già immuni dal pensiero dominante se non glie l’hai inculcato. E che non hai bisogno di spiegare troppo.
L'occasione per aggiustare le cose
Puoi decolonizzare tutto, però. Puoi approfittarne per raccontare la storia di Alex Schwazer o quella di Nadia Comaneci, quella di Simone Biles o quella delle sorelle Williams, puoi parlare loro dei soldi e di quanto contano – e di quanto dovrebbero contare, invece –, del fatto che a Parigi hanno cacciato i senzatetto per far posto alle Olimpiadi, del fatto che non c’è motivo di farsi la guerra, del fatto che esistono valori diversi, che le donne non si devono ricordare perché sono amiche di qualcuno o mogli di qualcun altro, che non c’è motivo di criticare qualcuno per come si veste, che i valori non sono universali e che di universale ci sarebbe solo quel rispetto – che mi piace pensare innato ma corruttibile – per le persone, per le tante comunità umane, per i tanti “noi” che siamo capaci di essere.
Puoi approfittare di un evento critico, complesso, che si può guardare da tanti punti di vista – quello dello spettacolo, quello della sostenibilità, quello dell’epica, quello dell’umanità in tutte le sue sfaccettature – per godertelo senza dimenticarti quella complessità.
Eventi come le Olimpiadi potrebbero essere una delle tante occasioni che abbiamo per aggiustare le cose. Se non li abbiamo imbevuti di sciocchezze e di desiderio di dominio sull’altro, i bambini hanno già tutto quel che serve per aiutarci. Non hanno bisogno di spiegarci come. Bastano la loro curiosità, la loro fantasia, le loro domande.