La moltitudine del tennista
Non si vince più da soli: senza collaborazione, cooperazione e affiatamento di squadra, l’individuo non vale nulla
Ho giocato a tennis in un campetto che quando andava bene avevi qualche crepa, quando andava male l’erba che ci spuntava dentro. Mi sono tagliato i jeans e li sfilacciavo apposta per Agassi.
Come molte cose nella mia vita, poi ho ritrovato il tennis ovunque, spesso senza cercarlo.
L’ho trovato in Infinite Jest, per esempio.
Quando ho letto Wallace su Federer e sull’esperienza religiosa mi sono commosso. Mi sono commosso anche quando Federer si è ritiraro. Poi, un giorno, ho riletto Wallace e volevo vedere il punto con cui si apre il saggio e mi sono messo a vedere quella partita su YiuTube e ho scoperto che Wallace se l’è inventato di sana pianta, quel punto, e ci ho su scritto un pezzo.
E sì, lo sapevo che i tennisti stavano diventando dei privilegiati milionari e che si stava rischiando l’effetto circo, ma comunque ho sempre trovato il tennis più credibile, affascinante, di molti altri sport.
Qualche anno fa ho ricominciato a giocare capendo molte più cose di prima, ho trovato un bravo maestro a cui voglio molto bene anche se non ci vediamo quasi più: grazie a lui ho capito anche perché mi piacciono il tennis e gli scacchi. Grazie a lui ho capito che non potevo continuare a giocare con la Prince anni novanta e ho scoperto che pure la racchetta nuova sembrava volare, ma tanto i miei limiti erano sempre quelli.
Il fiato non c’è più – mai stato, forse – ma mi diverto a giocare amatorialmente con un sacco di punti deboli – a partire dalla straordinaria arma del servizio, perfetta per l’avversario.
Purtroppo, suonati i 45, mi sembra sempre più difficile trovar qualcuno sul campo che non si senta stoca*zo e immotivatamente che giochi per migliorare e divertirsi. Di recente ho fatto un doppio con sconosciuti e il mio compagno nell’ordine ha: rubato due punti agli avversari, continuato a darmi ordini per tutta l’interminabile, noiosissima ora.
Da allora ne ho sentite e lette di tutti i colori (quanto mi manca Gianni Clerici), fra hater, appassionati storici, improvvisati, gente che pensa al tennis come al calcio, gente che confonde la propria esperienza personale con la verità assoluta, gente che cerca il gossip, che non legge i documenti, che guarda i riassunti e pensa di sapere tutto di una partita, che pensa che lo sport sia un videogame e pensa che il numero uno debba vincere sempre 6-0 6-0 6-0.
Ora, il bello è che, successo quel che è successo, Sinner triggera, il tennis triggera: cose da pazzi, quando triggera una cosa che prima ti sembrava di nicchia è sempre strano e allora magari taci – così faccio di solito – ma il tennis lo metti comunque ovunque, tipo dentro Piano, che è la rivista di Slow News.
Un po’ godo che sia così.
In fondo, siccome a me piacciono le persone che non sono personaggi, spero per lui che vinca tantissimo, che continui a rifiutare Sanremo per i prossimi vent’anni e che faccia un sacco di partite belle contro quell’altro fenomeno di Alcaraz, contro Medvedev che non sbadiglia più, pure contro Djokovic che sembra immortale, contro chi verrà.
Non si vince più da soli: senza collaborazione, cooperazione e affiatamento di squadra, l’individuo non vale nulla
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