Questa storia delle shitstorm

Potremmo evitarle in qualche modo?

Shitstorm

Shitstorm è una parola volgare che, letteralmente significa tempesta di merda. Secondo l’Oxford English Dictionary il suo primo uso risalirebbe agli scritti di Norman Mailer, romanziere e giornalista. Fa sorridere amaramente il fatto che Mailer sarebbe stato oggetto, secondo alcune letture contemporanee, di “cancellazione”. Fa sorridere amaramente perché, ovviamente, Mailer non è stato affatto cancellato.

Che cosa significa shitstorm?

La shitstorm ha di fatto due significati: può indicare in generale una situazione caotica e violenta o, più nello specifico, una reazione violenta da parte del pubblico. Il significato e le origini della metà del secolo scorso ci suggeriscono che il concetto non sia in alcun modo legato all’ecosistema dei social. Che faccia parte della cosiddetta infosfera, invece, non c’è dubbio: una tempesta di merda non la trovi in mare aperto. La trovi in quello spazio in cui, come persone parte di società, ci scambiamo informazioni, comunichiamo.

Non è colpa dei social, né del "popolo del web"

Con una sorprendente presa di posizione, Ernesto Assante su Repubblica ha scritto un pezzo d’opinione dal titolo Non date la colpa ai social. Il pezzo contiene più dati di molti pezzi che dovrebbero contenere dati e sorprende perché – finalmente – si distacca da tutta una serie di pregiudizi che le redazioni giornalistiche hanno perpetrato per una ventina d’anni. «Il “popolo del web», scrive Assante, «esiste solo nelle redazioni dei giornali, delle radio, delle televisioni». […] «La stragrande maggioranza, quella che usa i social come forma di contatto con amici, parenti, colleghi, non è “il popolo del web” per il mondo dell’informazione». Le shitstorm fanno rumore perché quelli che gridano e sono violenti fanno rumore. Ma non sono la maggioranza.
Insomma: le rivolte social non esistono, il popolo del web non esiste, le shitstorm sono fatte da persone.

Epperò c'è l'algoritmo

Sì, c’è l’algoritmo. Sui social – il cui modello di business è legato alla pubblicità, che dunque è legato ai clic, all’attenzione, al tempo che si spende su una determinata piattaforma – quel che fa rumore gira di più e sembra soverchiante.
Ma attenzione: anche i giornali, nel tempo, hanno avallato questa medesima logica, cercando di usarla a proprio vantaggio, perché anche i giornali hanno bisogno – un po’ per scelta, un po’ per reale necessità – della pubblicità. Così, succede che storie che hanno pochissima o nulla rilevanza pubblica diventano notizie che poi fanno dibattere per un sacco di tempo e che a volte si traducono in shitstorm.

Dal basso all'alto, dall'alto al basso

Trovarsi in mezzo a una reazione violenta è una cosa orrenda, soprattutto se non hai gli strumenti per difenderti. Molte persone hanno usato e usano l’ecosistema dei social e il loro funzionamento per costruirsi una reputazione, una visibilità e, in buona sostanza, per monetizzare. Nel farlo devono diventare un personaggio prima che una persona. Un personaggio che, in quanto stereotipato, deve essere rigorosamente coerente rispetto alla sceneggiatura che si è costruita. Quando la coerenza viene meno, quando l’immagine di perfezione si incrina, possono partire gli insulti. Se poi si viene sospettati di aver abusato della buona fede del pubblico aggregato con tanta fatica, di aver fatto qualcosa di moralmente discutibile – magari, anche di legalmente discutibile – le shitstorm diventano davvero violente, anche quando partono dal basso.
Non sono belle. Tuttavia, chi ha grande visibilità sui social e grandi fatturati ha anche grandi responsabilità. Quando le nuove o le vecchie élite si lamentano delle shitstorm o della cancel culture, spesso – non sempre – si lamentano del fatto che devono rendere conto degli errori che hanno commesso.

Quando le nuove o le vecchie élite si lamentano delle shitstorm o della cancel culture, spesso in realtà si lamentano del fatto che devono rendere conto degli errori che hanno commesso.

È un po’ come la storia della macchina del fango, o delle fake news, o delle tante etichette che abbiamo visto susseguirsi in questi anni. Tutti possono essere la fake news di qualcun altro. Chiunque può dire che un giudizio espresso su una persona è macchina del fango. E a quel punto toccherà scegliere a chi credere. Lo faremo sulla base delle nostre convinzioni, simpatie, idee. Raramente lo faremo sulla base dei fatti nudi e crudi e dopo attenta verifica. Quando poi le shitstorm partono dall’alto – per esempio, dai giornali o da chi ha grande visibilità social (anche in una nicchia specifica), allora possono essere ancor più violente e possono investire persone che non hanno strumenti per affrontarle.

Senso della misura e della proporzionalità

E allora cosa dovrebbe fare chi, nell’infosfera, ci lavora? Due cose. La prima è usare il senso della misura. Non ha alcun senso accanirsi contro le persone. Non ha alcun senso trattare come una notizia una recensione social presuntamente vera o presuntamente falsa. Non ha alcun senso accanirsi mediaticamente contro una persona che ha fatto, presumibilmente, una sciocchezza. Ormai sappiamo che esistono le shitstorm. Possiamo evitare di avere un ruolo nell’alimentarle. Del resto, per chi fa giornalismo, la rilevanza pubblica di una notizia, il reale interesse per cittadine e cittadini, dovrebbe essere il faro. È più interessante raccogliere tutta l’infinita serie di balle e dichiarazioni dette sul Ponte sullo Stretto da Mussolini in avanti oppure incalzare una pizzaiola come se fosse Pablo Escobar? Senza contare che se un’agenzia trendy avesse deciso di fare una campagna pubblicitaria con recensioni fake, probabilmente si sarebbe gridato al genio.

Senso di responsabilità

Poi ci sarebbe un’altra questione: chiedersi prima che conseguenze avrà quel che sto per pubblicare. Gli effetti indesiderati che avrà. Questo non significa auto-censurarsi o non scrivere di una magagna. Significa avere senso di responsabilità. Ti ricordi, per esempio, la storia della bidella presuntamente pendolare fra Napoli e Milano? All’epoca scrissi che le conseguenze di aver reso quell’aneddoto non verificato una storia furono «l’inquinamento dell’infosfera con una conversazione polarizzata e tifosa; le conseguenze sulla vita della persona protagonista della storia, che si trova ad essere indagata, investigata come se avesse fatto chissà cosa, esaltata da alcuni come paladina, dileggiata da altri, comunque posta sotto la lente di ingrandimento».

Ecco, ci sono persone che potrebbero non avere le spalle sufficientemente larghe per sopportare una shitstorm o anche solo un’investigazione sulla propria vita privata. Combinare il senso di responsabilità con il senso della misura e della proporzionalità potrebbe essere una strada per evitare di fare danni.

 

Senso del contesto (o framing)

Ci sarebbe poi la questione del framing. Cioè, di come scegliamo di inquadrare un discorso, un fatto, un evento. Se decido di raccontare un monologo di un’attrice e regista concentrandomi su un dettaglio in particolare invece che sul senso più profondo di quel monologo – cioè: se scelgo di puntare tutto su tre battute sulle fiabe anziché dire da subito che è un monologo sulla condizione femminile e su come viene rappresentata – faccio una scelta legittima e in qualche modo anche comprensibile, ma devo fare i conti con il fatto che quella scelta, poi, genererà inevitabilmente polarizzazione. E devo sapere che la conversazione polarizzata che ne seguirà si concentrerà su quelle tre battute, non sul senso profondo. Ecco perché dovrei avere in qualche modo il senso del contesto.

Senso della nonviolenza

Ci sono persone – anche fra i giornalisti – che amano usare un linguaggio violento. Che lo usano abitualmente. Che dicono «fai schifo», «capra ignorante». Ovviamente a quelle persone non interesserà nulla di tutto questo. E in effetti queste considerazioni sono per tutte le altre. Dovremmo allenarci a usare un linguaggio nonviolento. Evitare di trasformarci in giustizieri della strada. Esercitare un po’ di più alcune caratteristiche che dovrebbero essere squisitamente umane: l’empatia, la compassione, la cura per le relazioni.

Suonare bene

Come dice Baricco nel podcast su sé stesso citando la sua passata frequentazione di Matteo Renzi: «È più efficace una cosa imprecisa o al limite falsa che suona bene, che una cosa vera o precisa che suona in modo incomprensibile». Vero. Perché risuona meglio alle orecchie di chi la pensa già come te. Alla luce di tutto questo, e per evitare di avere un ruolo nelle shitstorm o nella polarizzazione, dovremmo pensarci un po’. A trovare il modo di far suonare bene le cose precise. Probabilmente non riusciremo a evitarle, le shitstorm, ma almeno potremmo contenerle.

Se per caso ti colpisce una shitstorm

Un’utima cosa. Siccome una shitstorm può arrivare all’improvviso e senza che tu te ne accorga o la veda arrivare – basta poco. Per esempio, che si interessi di te qualcuno con grande visibilità o che tu osi fare un’immagine con un’intelligenza artificiale – qualche consiglio per affrontarla:

1) chiudi il computer, il telefono, i social, lascia perdere
2) respira, medita, fai una passeggiata
3) parlane con qualcuno
4) non rispondere e lasciala passare

Se la cosa è grave, se ci lavori, se può crearti dei danni seri, è il caso di farti aiutare da persone di cui ti fidi e che possano sostenerti sia legalmente sia dal punto di vista della comunicazione.

Credits

Immagine generata con intelligenza artificiale generativa

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