Ohibò! Carmagnola?
Il pezzo di Elkann sui lanzichenecchi per mostrare quel che non va nel giornalismo italiano
Non sapevo che per andar col regionale da Torino a Savona si dovesse passare da Carmagnola e poi da Cavallermaggiore. E invece… e invece lo sapevo, ma mi sono divertito a parodiare l’imparodiabile pezzo di Alain Elkann sui giovani lanzichenecchi del treno.
Se c’è una cosa che ha fatto di buono, quel pezzo di cui – almeno nella mia noiosa bolla – hanno parlato un sacco di persone, è che grazie a lui ho scrollato, intravisto, visto, letto reportage di viaggi in treno in ogni forma.
A volte erano tweet di due righe. A volte racconti lunghi. A volte imprecazioni per la fatica del viaggio pendolare. C’erano i meme, c’erano gli sfottò, le parodie di un testo che sembrava impossibile da parodiare. C’era una vera e propria produzione dal basso – Henry Jenkins la chiamerebbe grassroot culture – di pezzi di vita vera, proposti in vari formati e su varie piattaforme. Purtroppo non ho il tempo di archiviarli, catalogarli, linkarli: alcuni si perderanno o si sono già persi effimeri come le stories. Altri rimarranno per chi vorrà andarli a cercare.
Questa produzione dal basso ha costruito un contro-racconto della società, del treno, del viaggio. È un contro-racconto molto più ricco dell’originale, ovviamente, perché proviene dalla realtà della maggior parte delle persone, quelle che non si sentono aliene quando salgono su un treno circondate da una popolazione varia, senza nulla in comune se non il fatto di aver preso lo stesso treno lo stesso giorno nello stesso momento. O magari si sentono aliene, ma perché ci sentiamo alieni e alienati. O magari si odiano o si integrano o vorrebbero vivere una vita diversa o ne gioiscono.
I problemi del giornalismo italiano
Nel racconto grassroot c’è la vita vera. Il pezzo di Elkann pubblicato su Repubblica, invece, è una dimostrazione plastica di molti problemi del giornalismo italiano. Userò, quindi, i problemi di quel pezzo per parlare di tutto il resto.
Di chi sono i media?
Prima di tutto, c’è la questione della proprietà dei media. Se Alain Elkann non fosse stato Alain Elkann, difficilmente quel pezzo sarebbe stato pubblicato su uno dei due più importanti giornali cartacei italiani. Forse avrebbe avuto qualche speranza se proposto da una persona già nel giro che conta. Non sarebbe stato pubblicato se l’avessi proposto tu, Alberto, o io. Questo ci porta, prima di tutto, a ricordarci che dovremmo fare sempre una disamina di come sia distribuita la proprietà dei media in Italia e, di conseguenza, di come possa essere pre-determinata la loro agenda. Da questa prima considerazione ne discendono molte altre:
La rilevanza di un articolo
Quel pezzo è rilevante, giornalisticamente parlando? Contiene qualcosa di interesse pubblico? C’è, al suo interno, qualcosa che vada al di là dello sfogo personale, del punto di vista monolitico? C’è qualcosa che non si sappia già? Forse avrebbe potuto essere rilevante, rappresentativo, per esempio, dell’incomprensione generazionale, se fosse stato inserito in una dialogo fra parti. Il dialogo, però, è mancato completamente. E dunque quel pezzo è rilevante come il post di un blog su Splider. Chi ha vissuto l’era dei blog sa di cosa parlo. Le altre persone non si sentano tagliate fuori: i blog erano (sono) diari online. Ci si scrive(va) un po’ di tutto. Spesso aneddotica. Spesso colorandola un po’. Spesso un bel po’. Perché funzionava così.
Il narratore onnisciente
Non sappiamo praticamente niente dei giovani sul treno, se non quello che di loro vede e racconta Elkann. Come spesso accade nel giornalismo italiano, che confonde la tutela delle fonti con “la fonte sono io”, il giornalista diventa il romanziere della realtà, il collettore delle fonti, colui che decide quali parti della storia raccontare e omettere. Non capita solamente in elzeviri o pezzi di costume: è una prassi. Ed è una prassi in controtendenza con una delle istanze più importanti del giornalismo contemporaneo: la trasparenza (guarda questo pezzo per averne una rappresentazione pratica. Posso seguire in ogni momento i passi fatti dal giornalista per scriverlo). Ovviamente, questo rende il pezzo di Elkann completamente non-verificabile.
La verifica delle fonti
C’è un dettaglio che non sarebbe mai passato se i pezzi dei giornali italiani fossero sottoposti a rigoroso editing: il volume che Elkann sostiene di cercare di leggere durante il suo viaggio, Sodoma e Gomorra, non è il secondo de la Recherche di Proust. È il quarto. Ora, è vero che la non-fiction può anche permettersi dei lussi che il giornalismo non si può concedere: ne ho scritto, per esempio, a proposito di un pezzo di non fiction di livello altissimo, quello di David Foster Wallace su Roger Federer (si legge qui). Ma, in quel caso, la crasi dei colpi di Federer condensati in uno scambio mai esistito ha una serie di scusanti e di funzioni narrative. In questo caso, invece, è solo un errore che si poteva evitare. E che fa venire addirittura il dubbio che nel racconto ci sia qualcosa di vero. I giovani urlavano? Erano lì? Elkann aveva davvero Proust?
Wallace condensa i colpi di Federer in un unico scambio per esaltarne la componente mistica. Elkann generalizza un’intera generazione (forse due) per rappresentare il proprio punto di vista.
La riproduzione del pensiero egemonico
Perdonami la generalizzazione: le redazioni italiane sono, culturalmente e spesso anche fisicamente, monolitiche, fatte salve alcune eccezioni. Sono italiche, maschie, bianche, in là con gli anni, benestanti, tendenzialmente conservatrici o comunque rigorosamente non radicali, in alcuni casi addirittura reazionarie. I giornali italiani non hanno al loro interno quella diversity che dovrebbe essere perseguita non tanto per le quote-minoranza ma per garantire la varietà del punto di vista e del racconto. Non è vero che non ci sia la possibilità di dire ciò che si pensa: c’è eccome, e infatti si dice sempre tutto e il contrario di tutto, e in programmi televisivi ancora molto seguiti vengono invitati abitualmente individui senza scrupoli che, per convinzione personale, per cavalcare la costruzione del proprio personaggio o per altre ragioni, si fanno paladini del negazionismo climatico, per esempio. Di sicuro i giornali italiani sono incapaci di produrre una visione post-coloniale del mondo, come dimostrano ogni giorno e come dimostra anche il pezzo di Elkann.
Lo sguardo coloniale è quello sguardo estraneo, altro, che si cala nella realtà malvolentieri e non la riconosce perché non la conosce e dunque impone a quella realtà e al suo racconto le proprie categorie di pensiero. Quando questo sguardo è dominante, si perde il senso stesso della missione giornalistica, che non è più racconto della realtà ma riproduzione del pensiero egemonico.
La mancanza di empatia e il pubblico dato per scontato
Elkann si rivolge ai sui pari. O almeno a quelli che si percepiscono tali. I giovani “lanzichenecchi” sono un bersaglio perfetto perché, diciamocelo: a chi, in treno, non ha dato fastidio almeno una volta la presenza di altri esseri umani? Chi viaggia tanto sa. C’è chi puzza. C’è chi fa sapere a tutti i fatti propri urlando al telefono. C’è chi tiene il volume alto. C’è chi invade i tuoi spazi. C’è chi ti colpisce. C’è chi si comporta come se fosse l’unica persona al mondo. In questi tipi di comportamenti, però, ci trovi di tutto: dal manager cafone alla ricca pensionata in vacanza, dalla pendolare che è appena arrivato in bici al treno e il deodorante non ha retto a chi sul treno ci ha dormito di nascosto perché un posto dove mettersi il deodorante non ce l’ha. Il giornalismo dovrebbe fondarsi sull’empatia verso il suo pubblico, perché senza il suo pubblico non esiste. E invece che fa? Restituisce distanza. Si colloca in una posizione altra, aliena. Non è tra pari. È sopra, altrove.
A qualcuno piacerà, certo, perché i giovani d’oggi, signora mia. Ma i dati di lettura e vendita dei giornali dicono molto altro. Il pubblico viene dato per scontato e intanto sta sparendo e si sta vaporizzando e riaggregando intorno ad altri brand, altri feticci, altri influencer, altre persone. Il pubblico dato per scontato non esiste più. Va ascoltato.
Il classismo
Quel pezzo era classista o no? Insomma, dopotutto i ragazzi viaggiavano in prima, avevano l’iPhone, le Nike. Be’, guarda: puoi viaggiare in prima, avere l’iPhone e le Nike eppure essere a rischio di diventare anche tu una persona povera. Elkann non corre questo rischio e ha potuto scrivere quel pezzo monolitico e con tutti i problemi che abbiamo visto e su quel giornale perché è Elkann.
Il giornalismo italiano è classista, tutte le volte che
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aderisce, replica, addirittura amplifica la narrativa dei poveri imprenditori che non possono assumere perché i giovani non vogliono lavorare
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si scaglia contro il reddito di cittadinanza e le misure di inclusione
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biasima i poveri o il calderone della “middle class” a prescindere
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esalta la cultura della performance
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aderisce all’idolatria del sacrificio e del lavoro ad ogni costo
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fa più notizia un albero caduto a Milano di una settimana a Catania senza acqua e energia elettrica
È classista ogni volta che è sciatto, perché ogni volta che è sciatto perde di vista la propria missione di servizio al pubblico.
La difesa a oltranza, fra di noi
Ovviamente siamo noi che critichiamo a non aver capito. Il pezzo era ironico. Era un racconto. Era spaesamento di un anziano signore colto. Quello era l’”io” del narratore, mica l’”io” del vero Elkann. Era lui a sentirsi inadeguato. Queste e altre argomentazioni sono state pubblicate poi sulla stessa Repubblica, scomodando addirittura la polifonia di Bachtin, definita “l’ABC” da Fabio Finotti. Finotti ci tiene a ricordarci che lui può esprimere giudizi sul testo di Elkann in quanto titolare di cattedra in USA, per la cronaca, è anche advisor del FIAC (Foundation for Italian Art and Culture). Di cui Elkann è presidente.
La difesa a oltranza del giornalismo italiano gonfio di ego, quel giornalismo che non si scusa mai, che scomoda gli amici a difendere gli amici, la cultura alta a blastare quella popolare, quella difesa lì, fra di noi che sappiamo come si sta al mondo, è solo la ciliegina sulla torta di un ecosistema che continua a dare il pubblico per scontato. Che non veramente è interessato al suo pubblico. E che dunque, per forza di cose, continuerà a perderlo.
Mi sono dilungato molto e non credo di aver finito. Sarò felicissimo di parlarne, se vuoi: la posta del bradipo è qui per questo (o per quel che vuoi tu).