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Come stiamo usando le tecnologie per un lavoro sul 2 agosto 1980
Sembra che molte aziende, soprattutto le più piccole ma non solo, stiano lentamente abbandonando il modello delle hard subscription per passare a soluzioni più flessibili.
In pratica? Ti faccio pagare meno o addirittura nulla, ma in cambio ti becchi un po’ di pubblicità.
Un esempio lampante sono le piattaforme di streaming come Netflix o Disney+, che ora offrono abbonamenti molto economici a patto che tu accetti di guardare qualche annuncio.
Un altro esempio è Youtube, che ti fa passare come una scelta la possibilità di sottoscrivere l’abbonamento Premium, ma se non lo hai allora devi guardare gli annunci – che tuttavia in parte “pagano” anche il lavoro dei creator.
Stessa cosa sta succedendo nel mondo dell’editoria.
Diversi giornali stanno smantellando i loro paywall, ma in cambio chiedono di disattivare l’adblocker – gentilmente, s’intende.
Altri esempi? Substack sta testando un sistema per aiutare i creator a gestire campagne pubblicitarie, mentre il Chicago Sun-Times ha detto addio al paywall per puntare tutto su un modello di adesione volontaria, una sorta di membership.
Anche aziende come The Atlantic e Gannett hanno iniziato a ridurre i contenuti a pagamento per aumentare i ricavi pubblicitari.
Ma perché? Perché puntare tutto sugli abbonamenti richiede tempo e investimenti in contenuti premium che non tutti possono permettersi, soprattutto ora che il mercato pubblicitario è in crisi e la non disponibilità ad abbonarsi all’ennesimo servizio, tra i lettori, è sempre più evidente.
Ovviamente non è un problema solo dell’editoria: abbiamo già citato le piattaforme video. Ma sono coinvolte anche quelle audio. Spotify, ad esempio, sta togliendo i paywall da alcuni podcast per monetizzarli con la pubblicità.
Insomma, il trend sembra essere chiaro: o paghi qualcosa, o guardi la pubblicità.
Semplice, no?
Fonte: Axios
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