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Le mie giornate recenti sono state invischiate nella la burocrazia, che ha letteralmente invaso, come farebbe un gas, tutto lo spazio che aveva a disposizione nella mia agenda.
Burocrazia per telefono, di persona, burocrazia nei moduli, burocrazia per le volture, burocrazia per i cartelli di divieto di sosta, burocrazia dei call center, burocrazia per farsi pagare, ma anche per respingere immotivate richieste di pagamento da parte di compagnie telefoniche che sostengono – senza esibire fatture, perché “basta il numero” – che esista un debito risalente a nove anni prima su un numero di telefono che non è dato sapere, burocrazia nelle chat delle scuole dei figli, burocrazia persino nelle conversazioni sui social (sto parlando da qualche tempo a questa parte di copyright, privacy, annessi e connessi. Tipo qui).
Da quando ci ho avuto a che fare la prima volta ho odiato la burocrazia.
È stato un odio viscerale, di quelli che non cancelli. Poi ho capito che il mio odio non era per i “lacci e lacciuoli” da cui vogliono essere libere le persone potenti ma per l’esatto opposto.
Per me la burocrazia è un limite per chi ha meno.
Acuisce le differenze, erode il tuo tempo, aumenta l’asimmetria informativa, ti illude di avere protezione, complica infinitamente le piccole azioni quotidiane con scudi illusori di parole (pensa ai banner per accettare o rifiutare i cookie, a cosa sono diventati, a quante volte li leggi davvero) o di procedure (quando, in realtà, la vera protezione sta nella possibilità di gestire facilmente le eccezioni); la burocrazia garantisce pienamente chi ha la possibilità di adeguarsi rapidamente alle norme mentre ostacola, blocca o addirittura danneggia chi si muove su binari più indipendenti.
Eppure la burocrazia è sorprendentemente amata da molte persone. Il che mi fa sospettare che anche questo tema, come molti (tutti?) altri sia politico e ideologico, legato al modo in cui vediamo il mondo o ce l’hanno raccontato.


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