Gaza: se la cura è lo sterminio

Gaza oggi è un malato terminale. E il rischio che venga spazzato via tutto, compresa ogni sua componente sana, umana, dignitosa, è reale.

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Bandiere, bandierine, vite umane

Non è sempre una fortuna avere amici di ogni nazionalità, cultura, religione. Te ne accorgi quando scoppia una guerra e la stessa notizia ti investe con uguale violenza ma con segni e sentimenti contrari. «I stand with Israel»; «I support Palestine»: i feed dei social media si riempiono di bandierine perché è importante esserci per fare sapere che si partecipa, che abbiamo dei sentimenti e anche una opinione sul mondo, o che apparteniamo a un blocco di nazioni o di presunte civiltà.  E mentre anche le piazze si accendono di led con colori contrari – Bruxelles, New York, Roma in bianco e blu; Doha, Baghdad, Tartus in verde, rosso e nero –, per alcune famiglie la questione è molto più seria. 

Bruxelles - Palazzo Berlaymont sede della Commissione europea 8 ottobre 2023 – Bandiera di Israele issata tra due bandiere dell'Unione Europea - Foto di Alberto Puliafito
Bruxelles - Palazzo Berlaymont sede della Commissione europea 8 ottobre 2023 – Bandiera di Israele issata tra due bandiere dell'Unione Europea - Foto di Alberto Puliafito - CC 4.0

Ariela, una delle mie amiche ebree americane, con un lignaggio che risale agli ebrei arabi yemeniti e frequenti viaggi in Israele dove si riconnette con un pezzo di famiglia migrata a Gerusalemme, si dispera sui social per la morte della nonna della sua migliore amica. La donna aveva fatto Aliyah [l’immigrazione ebraica nella Terra di Israele, ndR] verso Israele cinquanta anni fa e viveva nel kibbutz di Nahal Oz. Nella notte del 6 ottobre, la sua casa è stata assaltata e lei uccisa da un membro delle brigate al-Qassem di Hamas: sgozzata senza pietà, mentre il miliziano filmava la sua crudeltà contro una donna colpevole di essere solo una cittadina israeliana. Le foto la ritraggono insieme alla nipote: abbracciate sul ferry a New York, a passeggio sul prato del kibbutz, fino a un selfie sorridente in un giorno d’estate. Vite normali travolte da un orrendo destino.

 

Meno di 24 ore dopo arriva un messaggio su wp: «Attiya è morto».  Chiedo: «Come?» Risposta: «Sotto i bombardamenti israeliani di questa notte». Ho conosciuto Attiya lo scorso marzo: quasi maggiorenne, ridotto da quasi sei anni in sedia a rotelle, si alimentava grazie a un braccio elettronico fornitogli da un’organizzazione internazionale: con lo stesso braccio dava da mangiare ai piccioni e all’asino, nell’orto di famiglia a Khan Younis, nella zona agricola della Striscia. Il padre era la sua ombra. Sei anni prima aveva fatto l’impossibile per riprendersi il figlio, reso tetraplegico da un’unità di soldati israeliani che lo intercettarono troppo vicino alle barriere di terra al confine con Israele nel 2018. Trasferito in un ospedale militare israeliano, il padre venne invitato a presentarsi per identificarlo e verificare le ragioni di quella azione. Rilasciato e rispedito a Gaza, ad Attiya sono state negate ulteriori cure in territorio israeliano. Da lì venne fuori un caso, in una lunga, estenuante battaglia legale nelle corti israeliane. Una vita orrendamente eccezionale, la cui sofferenza è stata messa a tacere da un bombardamento. 

Vivere, sopravvivere, pensare, viaggiare

Pensare ad Attiya finalmente libero da un corpo nel quale era intrappolato è, tutto sommato, liberatorio. Pensare ad Ariela e al dolore della sua migliore amica di fronte alla certificazione di quell’orrore va oltre ogni immaginazione. Ma adesso penso a chi è ancora rimasto vivo e cerco i profili dei miei ex allievi di giornalismo nell’università UP di Gaza. Era il novembre 2013, prima del conflitto del 2014, e li ricordo ancora uno ad uno, tutti e trenta. Quelli che sono rimasti e quelli che, con l’aiuto di alcune organizzazioni internazionali, sono riusciti ad uscire. Un pugno di ragazze, molto talentuose, desiderose di fare conoscere la realtà della loro vita quotidiana, frustrate dall’impossibilità al viaggio e dalla necessità di doversi accontentare di opportunità di studio limitate, protese verso il desiderio di trovare marito e di avere figli ma anche di mantenere un lavoro, infastidite per le limitazioni imposte dell’allora nuova dirigenza di Hamas nei confronti dei comportamenti “immorali”, come frequentare un bar e fumare il narghilè o passeggiare sulla spiaggia mano nella mano con il fidanzato ufficiale promesso. Oggi sono tutte sposate con figli. Una sola è fotogiornalista, lavora per un’agenzia internazionale e ha mantenuto, pur nel rispetto della sua cultura e tradizione, un equilibrio invidiabile.

 

Omar e Mariam hanno avuto la fortuna di potere uscire. Lui era già bellissimo, figlio di madre ucraina e padre palestinese-americano: non avrebbe mai fatto il giornalista e, infatti, oggi lavora come modello in California. Mariam, che è anche talentuosissima musicista, orfana di una madre che a Gaza non era riuscita a farsi estirpare un curabilissimo tumore alla mammella, era poi riuscita ad avere un visto, grazie al suo lavoro con il centro culturale francese: oggi vive a New York, frequenta la scena musicale underground e non sa più se è femmina o maschio.

 

E poi, Mohammad: arrivato già con un talento fotografico assoluto, faceva parte del vivaio mediatico di Hamas, il braccio della propaganda che usa la telecamera al posto del fucile. Cercavo disperatamente di convincerlo che il suo non era giornalismo ma attivismo fortemente partigiano ma non c’era verso. Soprattutto lui ma anche tutti gli altri erano incapaci di concepire l’applicazione del mito dell’oggettività al giornalismo di cronaca a Gaza perché – dicevano – «non conosciamo altro ma soprattutto sappiamo il sapore dell’apartheid a cui ci costringe Israele». Dopo alcune lezioni ho gettato la spugna e abbiamo convenuto che la cosa più onesta da fare era raccontare qualsiasi cosa vedessero dalla loro finestra. Il progetto si chiamava “Una finestra su Gaza” e, per quanto i trenta studenti fossero diversi, rivelava il denominatore comune a tutti: «Voglio fare il giornalista perché vorrei raccontare al mondo che cosa significa avere per patria una prigione».

«Voglio fare il giornalista perché vorrei raccontare al mondo che cosa significa avere per patria una prigione».

Premonizioni

Davvero quanto accaduto, davvero l’azione di Hamas tra i kibbutz israeliani era imprevedibile? Davvero non c’erano segnali? Personalmente ne ho ricevuti due. Lo scorso gennaio, in visita in Libano con una delegazione di diplomatici, l’incontro con un giornalista locale molto vicino alla dirigenza di Hezbollah – incontro sottoposto a Chatham House rules [chiunque partecipi a un incontro con questa regola può utilizzare le informazioni emerse dalla discussione, ma non può rivelare chi ha fornito quell’informazione, ndR] – era stato illuminante.  Diceva la fonte: «Se Israele continuerà indisturbato nella politica di allargamento degli insediamenti e se aumenterà le provocazioni nei confronti del confine libanese e dei palestinesi di Cisgiordania, allora ci faremo sentire». Si riferiva a Hezbollah sul Libano, ma intendeva che sarebbe stato affare più diretto di Hamas.

 

E chiariva inoltre che per tutti i cosiddetti proxies iraniani (Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, Hamas in Striscia, gli Assashabi in Iraq, le brigate al-Quds in Siria) bisogna perseguire questo ragionamento: i proxies, soprattutto dopo la guerra in Siria, hanno appreso tattiche di guerriglia molto più avanzate e non è necessario che dipendano strettamente dall’Iran. Hanno know how, capacità decisionale e tattica autonome di cui informano la casa madre, nella misura in cui queste iniziative sono condivise lungo una strategia regionale di medio termine già prevista. Qualche mese dopo, in viaggio in Cisgiordania per realizzare un documentario commissionato sulle donne palestinesi e la loro partecipazione politica, e dopo faticosissimo ingresso a Gaza – la procedura d’ingresso a cui mi ha sottoposto Hamas meriterebbe un racconto a parte: nelle interviste è mancato solo che mi chiedessero il numero di scarpa e la taglia delle mutande per assicurarsi che io non fossi un orecchio del Mossad – ho ottenuto una intervista con una nonna combattente.

 

Majda al-Helo è quel genere di donna coriacea che ho incontrato anche altrove nei Paesi in guerra e che, personalmente, mi fa spavento. Una che ha la pellaccia dura da sessant’anni e che, mentre versa il the per uno stuolo di nipoti, e anche per i figli dei vicini, olea il kalashnikov con la stessa attenzione con cui maneggia la scopa per eseguire i mestieri casalinghi. Marito e cinque figli morti nella resistenza palestinese, Majda è una retrovia delle brigate al-Qassam, le stesse che hanno compiuto l’azione efferata di qualche giorno fa. Senza battere ciglio mi ha risposto che le donne a Gaza possono fare politica e che essa significa una cosa sola: lotta nei confronti dello stato occupante, con ogni mezzo necessario. Le sue parole, considerato il suo contesto familiare, e tutti i controlli ai quali sono stata sottoposta – probabilmente l’unica giornalista italiana ad essere entrata in Gaza negli ultimi mesi – oggi risuonano diversamente: si preparava qualcosa di consistente e bisognava evitare che lo si venisse a sapere tramite occhi e orecchi indiscreti.

Contingenze storiche

In molti si chiedono perché questa azione di Hamas sia stata programmata adesso e proprio adesso. Le ragioni sono meno simboliche di quanto si possa immaginare. La coincidenza con la guerra dello Yom Kippur del 6 ottobre 1973, in cui i Paesi arabi mossero guerra a Israele per riequilibrare la sconfitta della Guerra dei Sei Giorni,  è un parallelismo che regge poco, se non per la data coincidente.

Le condizioni sono del tutto diverse perché diversissimo è il mondo arabo dal pre-1979 ad oggi. Scomparso il socialismo nasseriano, Iran e Arabia Saudita, ossia le due potenze regionali attualmente trainanti due blocchi di Paesi arabo-islamici non sempre in dialogo, sono state molto distanti fino a pochi mesi fa. L’Egitto, che nel 1973 sostenne la Palestina, con la Siria a fianco, nel tentativo di riconquista delle alture del Golan, oggi con il presidente Abdel Fattah el-Sisi è tornato a una posizione filo-americana, come il suo predecessore Hosni Mubarak. 

L’unico paragone possibile con quella guerra, che si concluse in un bagno di sangue e in un nulla di fatto, è che da una parte rinfocolò l’orgoglio politico e la rivalsa dei Paesi arabi su Israele, preso di sorpresa militarmente dagli avversari e dunque dimostratosi per la prima volta vulnerabile, dall’altra portò a una crisi politica interna senza precedenti, che costrinse il primo ministro israeliano Golda Meir, il ministro della difesa Moshe Dayan e il capo dello Stato Maggiore Davide Elazar, a dimettersi. 

Palestinesi e le rovine di una casa dopo un raid israeliano nella città di Rafah, Sud della Striscia di Gaza, 12 ottobre 2023
Palestinesi e le rovine di una casa dopo un raid israeliano nella città di Rafah, Sud della Striscia di Gaza, 12 ottobre 2023 – Foto di Anas-Mohammed - Shutterstock (c)

Sul servizio pubblico britannico (BBC), le parole della madre di una ragazza, tra i 97 ostaggi di Hamas prelevati dal rave “Supernova” sulla spiaggia nel deserto del Negev – in una serata in cui procedevano i festeggiamenti gioiosi di Sukkot, detta anche Festa delle capanne nel mondo ebraico – hanno colpito senza sconti l’attuale dirigenza di estrema destra al governo a Tel Aviv.

 

La donna, e come lei altri civili coinvolti nelle violenze o nei rapimenti dei loro familiari, accusa il ministro della Difesa e il primo ministro israeliano Benjamin Nethanyau di avere abbassato la guardia, di non avere previsto nessuna protezione per i cittadini israeliani, ma soprattutto li accusa di essersi concentrati esclusivamente sulle questioni politiche interne e di avere dimenticato il pericolo proveniente dalla Striscia.

Di più, dice: «Ci avete sempre detto che il nostro sistema di difesa è il migliore del mondo e il nostro esercito è il migliore del mondo e, invece, oggi ci sono più di mille morti israeliani, per la prima volta nella nostra storia». Domande che pesano come un macigno in quello che, facendo un paragone con un identico shock collettivo basato sulla scoperta della propria vulnerabilità, è stato già definito l’11 settembre di Israele.

 

Da questo punto di vista, dunque, Hamas è già riuscita nel suo scopo. Ma ci sono altri due elementi di stretta contingenza: il primo è che un’azione di questo tipo vuole essere una lezione ai Paesi arabi (Marocco, Emirati Arabi Uniti, Bahrein) che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo [il 13 agosto 2020], ossia la normalizzazione con Israele, ed è allo stesso tempo un monito all’Arabia Saudita, molto vicina al farlo ma molto cauta nel non ledere l’opinione pubblica del Paese sull’altare dell’indifferenza per la causa palestinese. 

Il documentario "Waiting for Gaza", di Alberto Puliafito, prodotto da Fulvio Nebbia, IK Produzioni, 2009

Da Sharq al-Awsat ad al-Akbar

Due settimane fa, era questo il tono degli editoriali sui quotidiani in lingua araba, da Sharq al-Awsat ad al-Akbar: dalle parole si è passati ai fatti. Dopo questi accadimenti, l’Iran e l’Arabia Saudita, già più vicini per la mediazione cinese, potrebbero trovarsi ancora più allineati sulle scelte politiche regionali. Il secondo elemento contingente è che, semplicemente, Hamas ha deciso di fare pagare a Israele lo scotto per mesi e mesi di brutali azioni di esproprio, arresti amministrativi  indiscriminati e uccisioni dei palestinesi di Cisgiordania, utilizzando la stessa medaglia rovesciata e sanguinosa, l’occhio per occhio-dente per dente: nel fare questo si riabilita sia al favore dei palestinesi di Cisgiordania che ai cittadini del mondo arabo che hanno a cuore la sorte dei fratelli di Palestina, sentendo propria sia la loro dignità violata che la difesa di quella dignità. Nell’arco di poche ore, infatti, ho ricevuto parecchi messaggi, tra l’esaltazione, l’ignoranza e la puerilità, di amici yemeniti o iracheni che affermavano: «Oggi celebriamo la vittoria della Palestina». Da quando Gaza è sotto violenti bombardamenti, però, non ne ricevo più.

Betlemme, 20 novembre 2012 - Soldati Israeliani a Betlemme occupata, vicino al muro, con il murales di Banksy – Foto di Ryan Rodrick Beiler - Shutterstock
Betlemme, 20 novembre 2012 - Soldati Israeliani a Betlemme occupata, vicino al muro, con il murales di Banksy – Foto di Ryan Rodrick Beiler - Shutterstock
Nell’arco di poche ore, infatti, ho ricevuto parecchi messaggi, tra l’esaltazione, l’ignoranza e la puerilità, di amici yemeniti o iracheni che affermavano: «Oggi celebriamo la vittoria della Palestina». Da quando Gaza è sotto violenti bombardamenti, però, non ne ricevo più.

Il balzo tattico e tecnologico di Hamas

L’arma principale di Hamas è sempre stata il razzo Qassam, uno strumento economico costruito in garage e assemblato con tubazioni industriali, carburante per missili fatto in casa a base di zucchero e fertilizzante di nitrato di potassio ed esplosivo commerciale. Il Qassam è un’arma rozza e inefficace ma è abbastanza piccola da consentire a un paio di militanti di posizionarsi su un binario di lancio, sparare e uscire dall’area prima che gli israeliani possano prenderli di mira. I Qassam sono integrati da razzi di più ampio livello militare come il Grad da 122 mm di fabbricazione russa; questi ultimi razzi sono più grandi, più precisi e causano molti più danni, ma sono molto più facili da individuare e da distruggere.

 

Gli attacchi generati da un missile Qassam causano essenzialmente fuoco modesto, che atterra in modo casuale. E’ improbabile che causino vittime ma possono anche essere letali. Per fermarli, Israele ha istituito il suo famoso sistema di difesa Iron Dome, un sistema di radar e missili intercettori in grado di tracciare e abbattere centinaia di razzi in arrivo con un tasso di successo dichiarato fino al 90%, come accadde nel caso di migliaia di razzi lanciati nel 2021 dalla Striscia verso Israele. Ma anche Iron Dome ha i suoi limiti, e Hamas ha tentato di saturarlo lanciando più razzi di quanti il sistema potesse gestire. Secondo alcuni rapporti, Hamas ha lanciato fino a 5mila razzi in 20 minuti e di conseguenza molti razzi sono riusciti a passare.

La mappa dei luoghi citati in "Gaza: se la cura è lo sterminio" di Laura Silvia Battaglia

Gaza è circondata da una recinzione di sicurezza con torri CCTV, sensori di movimento e altri sistemi di monitoraggio per avvisare in anticipo qualsiasi intrusione. Le telecamere dei checkpoint sono collegate a sistemi di riconoscimento facciale e si dice che l’area abbia la sorveglianza digitale più intensa al mondo.

Sembra che Hamas abbia mappato la posizione del sistema di sorveglianza chiave e abbia dispiegato armi appositamente per eliminarli nelle fasi aperte dell’assalto, accecando l’intelligence israeliana su cosa stava esattamente succedendo e dove. Gli specialisti in minacce legate ai droni del collettivo Dronesec hanno raccolto video di Hamas che mostrano droni multicotteri sganciare esplosivi sulle torri di sicurezza, sui posti di frontiera e sulle torri di comunicazione israeliane. Il numero di video indica che si è trattato di un’operazione deliberatamente coordinata che ha consentito a centinaia di militanti di Hamas di eseguire la fase successiva dell’operazione – far esplodere o comunque sfondare le barriere – senza essere osservati. La perdita dei sensori avrebbe ostacolato qualsiasi risposta efficace, nascondendo il luogo in cui si stavano svolgendo gli attacchi principali.

Allo stesso tempo, Hamas afferma di aver lanciato 35 droni kamikaze Al-Zawari verso obiettivi in Israele. L’Al-Zawari è un drone portatile ad ala fissa di dimensioni simili al russo Lancet, che prende il nome dal produttore di droni tunisino Mohammed Al-Zawari, assassinato nel 2016. Precedentemente visto come un drone da ricognizione, lo Zawari è stato ora adattato per un ruolo d’attacco. Nel 2021, Hamas affermò che il suo piccolo drone d’attacco Shabab era in grado di evitare gli intercettori Iron Dome. Poiché i droni possono volare vicino al suolo, sono molto più difficili da individuare rispetto ai razzi che seguono una traiettoria balistica ad alto arco.

Video ripubblicato da War Monitor su twitter, didascalia: «Hamas publishes scenes of the "Al-Zawari" suicide drone that entered service and participated in the crossing of the troops into occupied territories»

Ancora una volta, i video forniti da Hamas suggeriscono che gli Zawari siano stati lanciati simultaneamente nel tentativo di sopraffare la capacità delle difese, aumentando le possibilità che alcuni riuscissero a passare. Il sistema di guida dello Zawari non è noto ma è probabile che sia pre-programmato con le coordinate GPS dei bersagli e utilizzato contro siti fissi. Questi potrebbero essere stati obiettivi di alto valore come caserme militari e centri di comando per ostacolare la risposta o potrebbero semplicemente essere stati lanciati contro obiettivi civili per causare quanti più danni possibili.

Hamas non ha ucciso solo civili. Le immagini dell’attacco mostrano che molti veicoli militari israeliani sono stati distrutti o danneggiati, inclusi diversi carri armati principali Merkava Mk4. Il Merkava è un progetto israeliano, costruito appositamente per sopravvivere contro minacce avanzate. In particolare, dispone del Trophy Active Protection System, che abbatte le minacce in arrivo ed è considerato leader mondiale. 

Video ripubblicato dal reporter Younis Tirawi, didascalia: «Gaza | Hamas published footage showing their aerial attack on a merkava tank near the border, all soldiers inside were eliminated.»

Un video di Hamas mostra un drone multielicottero che lancia munizioni su un Merkava. Sembra essere un’arma più grande di quelle usate sulle torri di sicurezza. Dronesec nota che la “Brigata Al-Nasir Salah al-Din” di Hamas ha mostrato un grande drone d’attacco esacottero, qualcosa di simile ai pesanti droni bombardieri usati dall’Ucraina. La munizione sembra colpire il Merkava ed esplodere; è impossibile valutare gli effetti dell’esplosione, ma pochi secondi dopo sembra scoppiare un incendio dalla parte anteriore destra del serbatoio. I primi rapporti non confermati suggeriscono che Israele abbia perso almeno sei Merkava e 17 veicoli corazzati. Hamas sostiene che almeno uno dei carri armati catturati era stato disattivato da un drone: non è chiaro se fosse lo stesso visto nel video.

In sintesi, i dettagli dell’operazione ci dicono che Hamas ha fatto un notevole balzo in avanti: come per il Houthi yemeniti, gli strumenti di offesa sono assemblati home-made e i componenti principali sono di fabbricazione russa o iraniana. In questi anni, come è accaduto con altri proxies, il passaggio fondamentale è sempre stato l’acquisizione del know-how. L’Iran è sempre stato prodigo di dettagli o in situ oppure tramite passaggi logistici in Libano e il denaro comunque in Gaza è sempre arrivato copioso su investimenti mirati da parte di Teheran o del Qatar, recentemente molto impegnato nella ricostruzione di zone della città già danneggiate da Israele. La capacità tecnologica non deve stupire, anzi dimostra che la tecnologia leggera negli ultimi conflitti è duttile e funzionale a obiettivi di guerriglia. Il perfezionamento tattico è frutto di mesi di osservazione silente, chiusura verso l’esterno e protezione oculata d’informazioni riservate.

Propaganda e disinformazione

In questo conflitto, la disinformazione si è diffusa rapidamente online quanto la polarizzazione. Oltre a resoconti credibili sullo sviluppo dello stesso, online sono ampiamente circolate disinformazioni su incidenti attribuiti a entrambe le parti. 

Negli ultimi giorni, ad esempio, post virali sui social media hanno presentato filmati vecchi di anni, o filmati provenienti da zone di conflitto completamente diverse, raffiguranti l’ultimo bombardamento israeliano di Gaza. Hanno affermato senza fondamento che il video di una ragazza scomparsa è un ostaggio israeliano a Gaza e hanno presentato i razzi accesi dai tifosi algerini come le luci e le esplosioni di una zona di guerra. Questi sono solo alcuni esempi.

La disinformazione è particolarmente nefasta in questo caso poiché spesso intreccia informazioni autentiche con dicerie e può portare a qualcosa di veramente degno di nota – come un attacco militare in un’area urbana – che viene associato a una falsità virale. Il gruppo OSINT Bellingcat ne ha esaminato una buona quantità di materiali, arrivando alla conclusione che nessun bombardamento ha toccato la chiesa di San Porfirio a Gaza, che alcune immagini del conflitto si riferivano a simili accadimenti del 2019 in Siria, che le immagini di una ragazza rapita e bruciata, attribuite al festival Supernova, si riferiscono a un equivalente episodio in Guatemala, e che altre immagini di Gaza arrossata dalle bombe erano relative a fuochi d’artificio sparati al Algeri per la vittoria di una locale squadra di calcio. Infine, il noto racconto della strage dei 40 bambini nel kibbutz di Kfar Aza, ad un attento fact-checking, documenta sì l’eccidio degli innocenti ma non loro decapitazione, come diffuso dalla all news israeliana I24news in diretta sul campo e come erroneamente amplificato dalla stampa italiana a reti unificate. Ma è stato sufficiente per rendere possibile l’equazione Hamas=Daesh che in queste ore alcuni ministri e militari israeliani ripetono per giustificare la prossima invasione di terra della Striscia.

Le conseguenze

Di fronte a un cancro metastatizzato e curato male, non ci si può aspettare una reazione sottomissoria di quell’organismo: ci si può aspettare solo una maggiore espansione, recrudescenza, aggressività del tumore stesso, che trascina con sé l’organismo nella sua totalità.

A questo punto non ci sono cure che tengano ma solo la soppressione del malato terminale, della sua storia complessa e personale, e non c’è alcuno spazio per la cura: Gaza oggi è questo malato terminale e il rischio che venga spazzato via con ogni sua componente sana, umana, dignitosa dal suo letto di immobilità è reale.

 

L’assedio medievale in corso deciso da Israele e la imminente operazione di terra, lo dimostra. Le parole utilizzate dal ministro della difesa israeliano Yolav Gallant, che definisce gli abitanti della Striscia «animali», lo dimostrano. Il prezzo della vita che pagheranno gli inermi ostaggi israeliani nelle mani delle brigate al-Qassem di Hamas, lo dimostra.

 

Occorre domandarsi come sia stato possibile che la comunità internazionale non sia intervenuta minimamente nei mesi scorsi per somministrare un’efficace chemioterapia, a fronte di una diagnosi in cui il malato veniva sistematicamente tacciato di essere la causa della sua malattia, quando la causa primaria del suo cancro resta certamente esogena. Curioso che succeda ancora: pur nella terribile efferatezza di questa azione terroristica, tornando alla politica, il problema primario di Gaza non è Hamas che la governa né l’Iran che la foraggia e approfitta della debolezza della popolazione gazawi per portare avanti il suo progetto geopolitico ostile a Israele.

È la condizione di separatezza e apartheid a cui Gaza è sottoposta da Israele a costituire la radice del problema.

Ed è una condizione sempre più vorace e instancabile e sempre più estesa anche ai palestinesi di Cisgiordania in seno a un processo culturale di disumanizzazione vicendevole, dove i palestinesi diventano «animali» per la propaganda israeliana e gli israeliani diventano «cani» ossia «infedeli» per la propaganda delle milizie filo-iraniane.

Gaza oggi è questo malato terminale e il rischio che venga spazzato via con ogni sua componente sana, umana, dignitosa dal suo letto di immobilità è reale.

Non c'è pace senza giustizia

Nel diritto internazionale, non ci può essere pace possibile senza giustizia. Se Israele ha il giusto diritto a esistere, a difendersi, a non ammettere i massacri dei suoi cittadini inermi e incolpevoli, a chiedere giustizia per la strage compiuta da Hamas, lo stesso principio va applicato al popolo confinante.

 

Purtroppo la storia insegna che siamo oltre il tempo massimo e, se non ci sarà alcun margine di negoziazione da parte di attori capaci di farlo, come la Turchia o il Qatar, quantomeno per rilasciare gli ostaggi israeliani e per consentire una qualche forma di corridoio umanitario per i gazawi, Gaza verrà spazzata via dalla faccia della Palestina: di recente è accaduto per Aleppo in Siria e per Mosul in Iraq, con la differenza che agli abitanti di queste città –  comunque bollati come terroristi tout court – nel tempo è stato concesso di fuggire e salvarsi, a fronte di un carico di ingiustizia storica da una parte e di responsabilità politico-militari dall’altra, non paragonabili alla lunga storia di occupazione palestinese. 

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