Vietato giocare a carte
«Le persone che giocavano a carte passavano anche quattro o cinque ore nel pomeriggio nel bar».
Sulla didattica a distanza, in pochi pongono l’accento sulla diseguaglianza dei diritti.
Campotosto, L’Aquila, terremotato tre volte dal 2009 al 2017, ha cambiato totalmente la sua identità.
«Tutti si dovrebbero trasferire qua, perché qua si sta bene». Non si usano mezzi termini quando si ha 11 anni. Si è alti poco più di un metro, si portano con orgoglio l’apparecchio ai denti e un peloso cappello psichedelico sopra la testa.
Ludovica è una delle quattro bambine della sua età a Campotosto, un paese dell’entroterra abruzzese a 1.420 metri sul livello del mare. Uno dei comuni più in quota dell’intero Appennino. A Campotosto in inverno fa molto freddo. Ma gli abitanti, compresa Ludovica, ci sono abituati.
Dei circa 540 residenti iscritti all’anagrafe comunale sono un centinaio gli abitanti reali, divisi tra l’abitato principale – una sessantina – e le frazioni Poggio Cancelli e Mascioni. Ortolano, un’altra frazione del territorio comunale, è invece completamente disabitata. In tutto il Comune vive lo stesso numero di persone di una scala in un condominio alla periferia di Roma.
Il processo di costante spopolamento che subiscono le aree interne appenniniche viene tuttavia compensato da una natura meravigliosa, che a Campotosto si trova nel mezzo del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, e include il lago omonimo, il secondo bacino artificiale più grande d’Europa. L’anima e al tempo stesso il vanto della comunità.
Quel che non rappresenta più un vanto, purtroppo, è il centro storico del borgo. Campotosto si era parzialmente salvato dal terremoto del 6 aprile 2009, quello che invece ha sconvolto L’Aquila, distante 45 chilometri. Ma il “6 aprile” dei campotostari è il “18 gennaio”, del 2017. Dopo mesi di scosse e distruzione prima nella vicina Amatrice (Rieti) e poi a Norcia (Perugia), quel giorno il destino decide di far crollare buona parte del paese.
Quattro forti scosse mattutine e due metri di neve mettono a dura prova la scorza dura della valle dell’Alto Aterno. Le cronache si concentreranno soprattutto sulla tragedia dell’Hotel Rigopiano, che su un altro versante del Gran Sasso porterà a 29 vittime. Nella stessa mattina, a Ortolano, un 72enne muore travolto da una slavina generatasi dalla combinazione fatale tra terremoto e neve.
Poi la vita lentamente riparte. Ludovica cresce. A 8 anni, nell’inverno 2017, fuggiva da casa perché c’era il terremoto. A 11, nella primavera 2020, è obbligata a rimanerci perché c’è il coronavirus. Ma a Campotosto l’emergenza sembra non essere mai finita, tanto che allo scoppio della pandemia non è stato necessario aprire il centro operativo comunale, semplicemente perché non era mai stato chiuso.
«Sono fortunata, perché se abiti a Roma non puoi fare niente. Invece qui posso uscire, passeggiare e si sta bene», racconta in un pomeriggio freddo e assolato di fine aprile. Da queste parti il lockdown si fa sentire più per la mancanza dei luoghi di aggregazione essenziali, come il bar o il parco giochi, che per la qualità della vita. L’effimera densità abitativa e un oceano di vegetazione consentono più libertà. Ci sono meno controlli, ci si conosce tutti. Tutto sommato c’è fiducia reciproca.
A dar retta al sorriso beffardo dell’undicenne, i problemi sono altri: «La prossima settimana voglio andare con i miei amici a fare una protesta al Comune – dice senza mezzi termini – perché hanno tutte le schedine per internet lì dentro e non ce le danno».
A Campotosto la linea dell’internet veloce non esiste. Nel resto del Paese si parla di 5G e fibra ottica, ma qui l’ADSL nel 2020 è ancora un miraggio. Tutti, compresa la struttura amministrativa comunale, utilizzano chiavette usb e “saponette” portatili per connettersi al wi-fi. E nei mesi della quarantena, quelli dove l’utilizzo del web è salito giocoforza alle stelle, le “schedine”, come le chiama la bambina, iniziano a scarseggiare, così come i gigabyte che portano in dote.
Ludovica frequenta la prima media in una scuola oltre il confine tra Abruzzo e Lazio, ad Amatrice, il centro più grande della zona. Ma come tutti i bambini e le bambine d’Italia è rimasta chiusa nel modulo abitativo provvisorio – per tutti i map, le case di legno costruite dopo il terremoto del 2009 – insieme alla famiglia. Ludovica, sempre solare, carattere positivo, si ritiene fortunata perché ha un computer, che divide con sua sorella. Ma al 29 aprile, quasi due mesi dall’inizio della teledidattica, si è cimentata solo due volte nelle videolezioni, «di cui una tra l’altro di prova».
Solo a maggio, due mesi dopo la chiusura delle scuole, è iniziata la didattica a distanza: «Con tre lezioni al giorno che mi hanno fatto stancare un bel po’», ci tiene a sottolineare. Non è stata facile, nelle ultime settimane di scuola, la convivenza tra le lezioni a distanza di Ludovica, della sorellina e della mamma, che nella vita fa la maestra.
Per il resto frequentare la scuola durante l’emergenza coronavirus significa fare soprattutto compiti, ovviamente a casa. Un suo amico coetaneo, che vive a Roma ma che ha trascorso la quarantena nella casa di famiglia a Campotosto, frequenta le videolezioni già da marzo, invece.
Mentre sulle televisioni e nei giornali decine di esperti e opinionisti dicono la loro sulla didattica a distanza, in pochi pongono l’accento sulla diseguaglianza dei diritti, sul divario digitale, sulla disomogeneità territoriale nell’accesso alla teledidattica.
In un Paese dove, nel 2019, più del 25% degli italiani non aveva accesso al web, la scuola è da sempre un luogo di contaminazione tra classi, di livellamento delle diversità socio-economiche. È un importante strumento dell’eguaglianza sociale, di indirizzamento verso una società più giusta. I limiti di accesso alla teledidattica, soprattutto in alcune aree del Paese, rischiano di annullare o limitare queste conquiste.
Ma Ludovica sembra curarsene poco. Le piace la matematica, dice che vuole diventare dottoressa. Ma in fondo a 11 anni cerca il bosco, i giochi, i cappelli pelosi e psichedelici. Indica i balconi precari della sua casa danneggiata dal terremoto, mostra il “fortino” di legno e chiodi altrettanto precario che ha costruito con i suoi amici, di fronte quella che è da tre anni la sua casa.
Da quel fortino immagina di diventare «il sindaco della Repubblica di Campotosto». Staccando il paese dall’Italia «si può fare quello che si vuole, non bisogna chiedere niente a nessuno e ricostruiamo subito le case». Immagina una secessione, Ludovica, anche se viene presto convinta dalla zia Valeria, che ci accompagna nella nostra passeggiata in paese, che fare la guerra non sarebbe giusto.
Certo, a Campotosto si sta bene ma oggi a Ludovica manca la sua migliore amica, Alessia (la figlia dell’ex sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi), le mancano i compagni di classe, la pallavolo e il judo. Anche a lei, come a tutti, manca il bar aperto e le cioccolate calde. Le manca trovare qualcuno per strada, di sera: «Da quando c’è il coronavirus nessuno vuole uscire di sera, invece è bellissimo uscire di sera. Voglio tornare a farlo appena sarà estate».
E l’estate, a Campotosto, intanto è tornata. Con il tramonto sul lago e le bevande fresche del bar in piazza. Il lockdown è terminato, la scuola è finita e Ludovica passa poco tempo dentro casa e tanto tempo per strada, com’è giusto che sia quando hai 11 anni.
Campotosto, L’Aquila, terremotato tre volte dal 2009 al 2017, ha cambiato totalmente la sua identità.
«Le persone che giocavano a carte passavano anche quattro o cinque ore nel pomeriggio nel bar».
Sulla didattica a distanza, in pochi pongono l’accento sulla diseguaglianza dei diritti.
«Le persone che giocavano a carte passavano anche quattro o cinque ore nel pomeriggio nel bar».
La quarantena, un fine inverno desertico tra le case rotte, il lockdown e un poco di neve ai lati delle strade.
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria si parla ogni giorno di smart-working, internet e comunicazione a distanza.
Un approccio curioso ed interessato verso le diversità è in realtà molto raro e discordante rispetto all’approccio generale.
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«Le persone che giocavano a carte passavano anche quattro o cinque ore nel pomeriggio nel bar».