Questo pezzo probabilmente non è stato scritto da una scimmia

Qualche giorno fa ho letto La creatività ha perso di Andrea Girolami. Nel pezzo, Girolami racconta come, nel mondo della produzione di contenuti, oggi ci si faccia guidare dai dati. C’è una vecchia dichiarazione di Madeline McIntosh, già amministratrice delegata della Penguin Random House al NYT: «Amazon mi ha dato l’esperienza di essere pienamente immersa in una cultura in cui tutte le decisioni venivano guidate dai dati. Ho capito che potevo farlo altrove e che poteva essere liberatorio».

Certo, sulla carta funziona: meno discussioni, meno idee portate avanti solo per il potere persuasivo di una certa persona o di una cert’altra. Ci sono i dati! Facciamo quel che vuole il pubblico! Prendiamo decisioni data driven!

Questo approccio – che, come racconta Girolami, porta a produrre sequel, reboot, nuove espansioni di mondi e storie già esistenti e che abbiano già avuto successo – non mi mette a mio agio. Anzi.

Mi ricorda quello che scrive Brad Stone nel suo libro Amazon Unbound: Jeff Bezos and the Invention of a Global Empire.

Secondo Stone, Bezos sarebbe stato piuttosto deluso dall’insuccesso di The Man In The

High Castel, serie Prime basata sul romanzo omonimo di Philip Dick (tradotto in italiano come La svastica sul sole). E avrebbe scritto, allora, una nota elencando i dodici punti chiave comuni a tutti i grandi successi narrativi

  • un/a protagonista eroico/a che vive la crescita e/o il cambiamento
  • un/a avvincente antagonista
  • realizzazione del desiderio (ad esempio, il protagonista ha abilità nascoste, come superpoteri o magia)
  • scelte morali
  • ambientazioni variegate
  • urgenza di guardare il prossimo episodio (cliffhangers)
  • la posta in gioco della civiltà (una minaccia globale per l’umanità come un’invasione aliena o una pandemia devastante)
  • umorismo
  • tradimento
  • emozioni positive (amore, gioia, speranza)
  • emozioni negative (perdita, dolore)
  • violenza

Sempre secondo Stone, Bezos vorrebbe che i producer di Prime si attenessero a questo dodecalogo.

Ora. Mettiamo che sia vero. Mettiamo che Bezos abbia ragione in questa ingegnerizzazione della creatività e della storia di successo. E mettiamo che anche i dati abbiano ragione, che ci si possa basare su quelli per non sbagliare.

Com’è possibile, allora, che la prima stagione della serie del Signore degli Anelli su Prime abbia un punteggio bassissimo su

Rotten Tomatoes? Com’è possibile che il miliardo di dollari – miliardo. di. dollari. – speso non abbia trasformato questa serie in un successo mondiale? C’è tutto, nel Signore degli Anelli. Tutto quello che vuole Bezos e pure tutto quel che vogliono i dati. Eppure è andata com’è andata.

La mia scommessa è: non funziona così.

Ma poi, affidarsi ai dati e a questi schemi ha senso perché interessa davvero creare qualcosa che resti, che faccia breccia? O ha senso perché nel mercato della creatività chi ha poteri decisionali ha bisogno di certezze e di avere delle solide basi per poi poter dire «il flop non è colpa mia?».

Mi è capitato spesso di vedermi respingere delle idee: sarà successo anche a te, immagino. A volte sono stato d’accordo con le motivazioni. Altre volte meno.

Di recente, una mia proposta per scrivere un libro sulle macchine generative è stata respinta con due motivazioni contrapposte: una persona l’ha respinta dicendo che una volta che il libro sarà uscito sarà già vecchio.
L’altra l’ha respinta dicendo che ci stanno già lavorando da mesi e quindi il libro che vorrei scrivere esiste già. Chi avrà ragione? Forse sbagliano entrambe?

Quando ho lavorato a Slow News,
il documentario
, prima è stato respinto perché non era una storia singola sullo sfondo storico ma era troppo corale, poi perché non era come Social Dilemma (l’ho preso per un complimento). Alla fine ce lo siamo fatti.

Entangled per qualcuno è “troppo per giovani”. Per qualcuno è troppo corto. Per qualcuno è in bianco e nero e dovrebbe essere a colori. Per qualcuno è “troppo poco per young adult”. Per qualcuno sarebbe bene che riuscissimo a venderne più copie, per farne un sequel insieme. Per qualcuno è un problema che abbiamo già venduto parecchie copie perché non è più nuovo.

Più o meno, tutte le volte che mi sono approcciato all’industria culturale con delle mie creazioni, mi sono scontrato sempre con il medesimo atteggiamento: obiezioni.

Pensavo fosse un problema solo mio: giustamente si può anche mettere in discussione quel che si fa. Magari non sono idee così creative e belle.

Finché in Bullshit Jobs di David Graeber non ho trovato la testimonianza di una persona che lavora nel mondo dell’audiovisivo e racconta che prima di farsi approvare un progetto ci vogliono anni. Che le persone che hanno potere decisionale vivono nel terrore di dirti di sì e poi farti fare un flop, o di diti di no e poi vedere che funziona a qualche altra parte. Che ti chiedono una modifica. Poi un’altra. Poi un’altra perché quella nuova non funziona più. Poi scopri che il tuo interlocutore ora lavora per la concorrenza e ricominci da capo.

Mi sono sentito meno solo, ancora una volta.

Nel frattempo sono arrivate le macchine generative: creano, sì, senza alcun dubbio creano.
Questo potrebbero lasciar pensare che la creatività sia davvero ingegnerizzabile, operazionabile, spacchettabile e poi riproducibile. E forse, in effetti, sul lungo periodo è proprio così che andrà: creiamo con le macchine. Poi anche le macchine creeranno. Creeranno talmente tanto che creeranno cose incomprensibili, inguardabili, illeggibili, orrende, da punteggi bassissimi su Rotten Tomatoes, ma prima o poi creeranno un capolavoro, un successo assoluto, di pubblico e di critica. Magari l’hanno già creato.

Questa scimmia molto probabilmente non sta scrivendo questa newsletter
Sarà replicabile, allora? È importante?

Ho la sensazione, ancora una volta, che sia un problema mal posto e che siamo arrivati dalle parti teorema della scimmia instancabile.

«Immagina che un milione di scimmie siano state addestrate a digitare a caso sui tasti di una macchina da scrivere e che […] queste scimmie dattilografe lavorino diligentemente dieci ore al giorno con un milione di macchine da scrivere di vario tipo. […] Alla fine di un anno, i [loro] volumi conterrebbero la copia esatta dei libri di ogni genere e di tutte le lingue conservati nelle biblioteche più ricche del mondo».

La formulazione di questo teorema da parte di Émile Borel è un’idea che risale a molto tempo prima: Borges ne traccia le origini fin da Aristotele, ma non sappiamo se ci si debba fermare lì Oggi lo diremmo in maniera un po’ diversa: «una scimmia che preme a caso i tasti di una macchina da scrivere per un tempo infinitamente lungo, quasi sicuramente produrrà qualsiasi testo». Tipo l’Amleto. O questa newsletter. O Games of Thrones. O la storia di Bezos che non si dà pace perché ha creato Amazon ma non sa far produrre un altro Games of Thrones e non lo sa fare nemmeno lui.

Se ci pensi, con l’abbattimento dei costi di produzione di qualsiasi contenuto, siamo diventate tutte scimmie instancabili. Digitiamo, fotografiamo, riprendiamo, pubblichiamo. Eppure i successi straordinari continuano a essere pochi.

Perché?

La mia scommessa è che i dati sbagliano.

Alberto Puliafito
Alberto Puliafito
un anno fa

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Ultimo aggiornamento 2 giorni fa
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