Chi c’è dietro l’Istituto Bruno Leoni?

Capita spesso di sentire raccontare da chi si professa liberista che il successo e la diffusione di una idea (della loro) sia legata alla propria forza persuasiva, alla propria efficacia nel risolvere i problemi, alla propria, in qualche modo, necessità. Come se esistesse un “mercato libero delle idee” in cui ogni idea si fa largo con le proprie forze e, quando prevale, dimostra di essere la migliore, l’unica realmente efficace, l’unica intelligente per risolvere i mali del mondo.

Ma non è così. Purtroppo, la fortuna delle idee e delle ideologie — in modo particolare proprio dell’ideologia liberista, che con la libertà ben poco ha a che fare — è legata ai soldi e al potere.

In Italia, per esempio, c’è una associazione culturale che si chiama Istituto Bruno Leoni e che da 20 anni (è stata fondata nel 2003) ha come obiettivo proprio il «promuovere le “idee per il libero mercato”», come si legge sul loro sito.

«L’IBL vuole dare il suo contributo alla cultura politica italiana, affinché siano meglio compresi il ruolo della libertà e dell’iniziativa privata, fondamentali per una società davvero prospera e aperta», scrivono. E aggiungono «le idee proposte da IBL, sul terreno delle politiche concrete, vogliono dare maggior respiro alla società civile e autonomia alle persone, restituire risorse all’economia, liberare la concorrenza e gli scambi e così costruire più benessere e ricchezza per tutti».

Le battaglie promosse dall’Istituto in questi anni sono tante e toccano tutti i temi dell’agenda politica, dall’economia alla mobilità, dalla scuola alla sanità. Membri dell”associazione sono stati e sono consulenti del governo, soprattutto in campo economico e ultimamente la grossa sfida è quella di combattere sul nascere la richiesta da parte di gran parte della società di un reddito universale, di base o di cittadinanza.

Ma chi paga per combattere queste battaglie? Il Fatto Quotidiano, appoggiandosi su un lavoro di indagine ed archiviazione del ricercatore Maurizio Massignan, ha pubblicato una lista parziale di chi negli anni ha investito i propri soldi per sostenere l’associazione e diffondere le sue idee. È una mappatura molto interessante. Ci compaiono brand che si occupano di petrolio, di assicurazioni, di telecomunicazioni, di infrastrutture stradali, di tabacco, di sanità privata e molti altri.

«È una lotta di classe, e la stiamo vincendo noi», disse qualche anno fa il miliardario americano Warren Buffett. Parlava a nome della classe dominante, il famoso 1% per cento della popolazione mondiale, e anche a nome dei soci dell’associazione di cui sopra, e aveva tremendamente ragione.

E se stava vincendo, se ha vinto e se si è affermata come qualcosa a cui non esiste alternativa, è soprattutto grazie ai miliardi che stanno dietro a queste idee.

Andrea Coccia
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