MacGuffin: l’arma di distrazione di massa del giornalismo

Un giorno lo sceneggiatore Angus MacPhail si inventò un termine per denominare un elemento molto importante nei film: il MacGuffin.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Un giorno lo sceneggiatore Angus MacPhail, che lavorava spesso con Alfred Hitchcock, si inventò un termine bellissimo per denominare un elemento molto importante nei film che scrivevano: il MacGuffin. Al di là di chi si sia inventato il nome, il MacGuffin è un oggetto narrativo che esiste solo per essere cercato, scambiato, rubato, inseguito dai protagonisti, un oggetto vuoto, la cui reale essenza non è rilevante per lo spettatore, che spesso — l’esempio classico è la valigetta di Pulp Fiction — non sa neppure che diavolo ci sia dentro. È una funzione narrativa. Serve per rendere dinamica una trama, e funziona molto bene.

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Vince Vega

Quello che Hitchcock teorizzò per il cinema, al giorno d’oggi sembra essere stato importato nelle due forme di racconto che più tendiamo a confondere con la realtà, ovvero il giornalismo, che è quello che qui ci interessa, e la politica.

Il MacGuffin giornalistico è un oggetto non informante e ben identificato che scatena dibattito e indignazione su se stesso facendo dimenticare il contesto, che è poi quello che ci dovrebbe interessare. È una funzione, non è un contenuto. Non serve per quello che esso stesso rappresenta — spesso proprio nulla — ma per l’effetto che fa. Un po’ come il finto bersaglio di un sommergibile svia l’attenzione di un missile nemico dalla sua carena, il MacGuffin distrae il pubblico dal suo vero obiettivo del frequentare le informazioni: cercare di affinare la propria idea del mondo, approfondire il proprio senso di realtà.

In questi MacGuffin ormai noi ci viviamo immersi. Prendiamo due casi, per comodità di analisi, che nelle ultime settimane sono capitati davanti agli occhi di tutti: il caso delle dichiarazioni della vincitrice di Miss Italia e il caso della foto del bambino siriano morto su una spiaggia turca.

Sono due casi interessanti perché, per la loro distanza reciproca, illustrano perfettamente l’aspetto più subdolo della natura di un MacGuffin, se costruito bene: ovvero che, sia che parta dalla più grande cazzata del mondo sia dalla tragedia più grande, come un parafulmine concentra sempre l’attenzione su di sé, mantenendo la testa dei lettori sotto la sabbia, aggiungendo un giorno in più alla storia della nostra abdicazione culturale.

Partiamo dalla storia di miss Italia. Lei si chiama Alice Sabatini e durante la serata finale della premiazione ha rilasciato una dichiarazione che è rimbalzata ovunque, generando indignazione di massa e decine di meme sarcastici.

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Questa immagine è un MacGuffin

La dinamica che fa di questa storia un MacGuffin è la seguente: la Miss alla domanda sul periodo storico che avrebbe voluto vivere risponde, stupendo tutti, “la Seconda guerra mondiale”. Si scatenano subito gli attacchi sui social network, la “notizia” finisce su ogni tipo di giornale; tutti o quasi sono d’accordo sul fatto che sia una cazzata e il dibattito diventa inutile quasi quanto la “notizia”. Parte pure la controindignazione. Il grande teatrino dei social si riavvia e per un giorno intero gira a vuoto, in attesa del prossimo MacGuffin.

Ora tocca alla foto del bambino siriano. Qui il discorso è più delicato, perché se chiaramente a nessuno frega nulla di una ragazzina che ha vinto un concorso di bellezza, è più difficile ammettere che a ben pochi interessa della vita di quel bambino. La storia della foto, infatti, è un altro MacGuffin, ed è andata così.

La foto viene scattata e pubblicata; fa il giro del mondo in un attimo; i giornali di tutto il mondo si dividono tra chi la pubblica in prima pagina e chi decide che è troppo cruda. Immediatamente parte l’indignazione. Alla prima occhiata tutti pensano alla tragedia dei profughi, alla seconda stanno provando compassione sfrenata per il bambino; alla terza occhiata provano orrore per la foto. Già alla seconda occhiata in pochi si ricordano che quella foto non è il bambino morto, ma la foto del bambino morto, e che la realtà è ben peggiore, perché i cadaveri sono migliaia.

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Unsplash

Il ciclo dell’indignazione parte senza freni; per giorni se ne discute. Ma non si discute del fatto — ovvero che i migranti muoiono annegati a decine, compresi moltissimi bambini e che questa è una tragedia immane — si discute del oggetto. Quella foto è diventata un MacGuffin, una funzione narrativa, non un contenuto. Passa qualche giorno e ce ne siamo dimenticati.

Insomma, il meccanismo è tutto sommato semplice. Che sia una dinamica portata avanti scientemente da una classe o da un gruppo di persone mi sembra una soluzione semplice e troppo cinematografica. Più complessa, e forse più letteraria, è una spiegazione che si aggrappa alla debolezza culturale di tutti noi, che stiamo velocemente scoprendo che ci divertiamo di più a inseguire e riportare i bastoni come i cani, piuttosto che andare a caccia di topi.

Ci siamo adeguati, ci piace, ci tranquillizza e in qualche modo ci culla. È l’evitare il discorso sulle cose vere. E il MacGuffin, ben prima di fregarci, è congeniale alla nostra accidia culturale. Ci fanno inseguire MacGuffin come criceti che inseguono se stessi sulla ruota che gira nell’angolo della loro gabbietta che chiamano mondo. E noi, come quei cazzo di criceti, se andiamo avanti così non vorremo più scendere.

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