Il re è nudo

Appunti a margine dell’assemblea del 15 novembre 2025 all’università La Sapienza di Roma 

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Più di quaranta realtà sociali di varia natura, ognuna con pochi minuti a disposizione, per raccontare la propria ragione di adesione all’idea di una lotta comune e polimorfica al dominio dei nuovi despoti. Qualcuno fa fischiare il microfono, altri hanno la voce troppo bassa, il collegamento dal Brasile ha bisogno di una dozzina di tentativi prima di funzionare, l’aula universitaria necessita di aerazione, duecentocinquanta persone stipate in poco spazio sono tante: qualche sganghero, ma tanta sostanza e sincerità alla Sapienza di Roma il 15 novembre per l’Assemblea nazionale contro i re e le loro guerre, alla ricerca di una strada convergente per i movimenti che lottano per una società più giusta.

La convergenza come necessità materiale 

Nei vari interventi, è emersa con chiarezza la consapevolezza che la divisione — generazionale, sociale, geografica — è un vantaggio per chi detiene il potere. I re non sono solo Trump, Milei o Meloni. Sono anche i super ricchi che controllano social network e grande distribuzione, le compagnie petrolifere poco inclini a lasciare spazio alle rinnovabili nel mercato energetico, e i palazzinari che prosperano grazie a leggi lacunose e amministrazioni compiacenti. E poi ci sono i “kings” metaforici: pratiche patriarcali, discriminazioni salariali, affitti impossibili, l’apartheid a bassa intensità che subiscono i migranti nelle sedicenti democrazie occidentali. 

 

Dalle parole di tutti emerge la necessità di colmare l’inarrestabile divergenza tra i pochi burattinai capitalisti e il resto dell’umanità, attraverso una pratica di convergenza della lotta: sembra una tautologia, quasi un’ovvietà, ma farlo dal basso, contro gli “uomini nell’alto castello”, non è una passeggiata. I quasi cinquanta interventi sono apparsi come un mosaico di storie che s’incrociano nella consapevolezza che nessuna lotta è separata dall’altra. Un buon punto di partenza, insomma. 

Intersezioni concrete: neo-autoritarismo, crisi abitativa, economia di guerra, ambiente 

I temi emersi sono tanti, quasi quanto i singoli interventi; naturalmente, a tenerli insieme tutti, quasi a dettare la linea, c’è il genocidio di Gaza perpetrato dall’esercito israeliano, una delle atrocità più sistemiche e documentate del XXI secolo, da qualche mese ammantata anche del sudario ipocrita del “cessate il fuoco” buono per i titoli delle testate mainstream, ma nei fatti molto lontano dall’essere reale. 

 

Le parole chiave che si ripetono più spesso sono quattro: crisi abitativa, Ddl sicurezza, crisi climatica, economia di guerra. In un universo di temi, tutti sacrosanti e degni di approfondimento, avere dei punti di partenza condivisi facilita il lavoro. 

 

La casa, oggi, sembra non essere più un diritto basilare: in Italia gli affitti sono cresciuti del 50% in dieci anni, quattro volte più che nel decennio precedente. Se si aggiunge che gli stipendi non crescono da trent’anni (secondo alcuni dati sono addirittura in contrazione), il tema dell’abitare non può che essere una pietra miliare in una strategia di ricomposizione. 

 

L’autoritarismo incarnato dal decreto sicurezza (Decreto Legge n. 48/2025) è un altro nodo evidenziato in più di un intervento. Nella nostra società post-industriale lo sciopero generale non blocca più la produzione come un tempo, mentre la pratica dei blocchi incide direttamente sulla circolazione di persone e merci — la vera linfa del capitalismo contemporaneo. Non a caso il decreto sicurezza colpisce duramente i blocchi stradali. Come non considerarlo uno degli ostacoli principali da rimuovere? 

 

La crisi climatica è tornata a essere un tema dibattuto, dopo qualche tempo in una sorta di dimenticatoio, o forse meglio un “parcheggio dell’ovvio”, quando anche le manifestazioni dei Fridays for Future hanno perso slancio. Non c’è però impellenza più ineludibile del contenimento del riscaldamento globale, e la natura stessa della deriva climatica — così interconnessa con ogni attività umana — richiede un approccio multidisciplinare e intrinsecamente intersezionale, perché altrimenti non sarebbe sufficiente. 

 

Il quarto capitolo pluricitato è il riarmo: il tentativo, soprattutto europeo, di rilanciare l’economia attraverso politiche industriali belliciste. Al di là delle velleità italiane, che anche in questo caso, con la legge di bilancio per il 2026, sembrano una partita da dilettanti wannabe, spaventa davvero vedere il riarmo della Germania, questa volta finanziato in maniera massiccia e capace di riaprire questioni storiche e geopolitiche che l’Europa non può ignorare. 

 

Fatta salva l’enumerazione dei temi, non è poi fondamentale gerarchizzare: serve capirne la radice comune, per rompere l’isolamento delle singole battaglie. Così la convergenza — lungi dall’essere uno slogan — si configura come strumento strategico per costruire forza, rete, possibilità reali di contare. 

Dove lavorare di più 

L’assemblea romana è stata produttiva, ma come ogni esperienza ha mostrato anche la corda su almeno un paio di aspetti. Il primo è la filosofia politica d’interdipendenza su cui basare la convergenza, in parole più semplici, un approccio che preveda “meno Italia e più internazionalismo” potrebbe essere più efficace, nel combattere despoti che sembrano a loro agio nella tessitura di trame sovranazionali, all’insegna della prevaricazione, spesso apertamente compiaciuta, dei ricchi sui poveri.

 

Il secondo è la strategia comunicativa per “tirare dentro” le persone. Un’assenza che si è sentita. Nonostante molte realtà presenti vivano — e spesso resistano — dentro spazi informativi controllati dai nuovi “re”, di comunicazione si è parlato pochissimo. 

 

Nei mesi dell’autunno 2025, caldissimo di mobilitazioni per la causa palestinese, ci sono stati esempi di grande successo nel racconto del dissenso. La prima puntata di questa serie di articoli, per esempio, è dedicata al lavoro di Milano in Movimento, che ha coperto le manifestazioni milanesi meglio di qualsiasi testata ufficiale, contando esclusivamente sulle finanze dei suoi volontari.

 

Di fronte a una così potente vitalità dell’informazione dal basso, risulta un po’ spiazzante che all’assemblea di Roma, fatta salva la giusta nota sulla libertà di stampa perennemente minacciata, non ci sia stato spazio per una riflessione sull’importanza della comunicazione: è un pilastro della mutualità che non può essere ignorato.

 

Sarebbe davvero utile definire una grammatica comune della comunicazione intersezionale. Può sembrare una caduta verso un campo meno nobile di quello dell’elaborazione politica, ma, per fare qualche esempio, decidere di usare determinati hashtag o pubblicare post in collaborazione su Instagram sono piccole pratiche di convergenza, così come ospitalità incrociate sui propri siti possono aiutare a “rompere le bolle”. 

 

Il lavoro comunicativo convergente merita probabilmente un proprio momento di sintesi, interamente dedicato allo studio delle metodologie con cui raggiungere un pubblico ampio e liberare il racconto della ricomposizione dalla gabbia del tema di nicchia. 

Cosa ci portiamo a casa 

La convergenza non è un’accozzaglia di buoni propositi. È una sfida quotidiana fatta di riconoscimento, di costruzione collettiva, basata sul “noi”. 

 

L’assemblea del 15 novembre alla Sapienza non lascia prevedere un “quando”: non è per domani, forse non sarà neanche per un anno, anche se è prevista una seconda puntata, per l’inizio del 2026. L’assemblea segna un “da ora”: da ora proviamo a tessere alleanze, a dichiararci vulnerabili, a trasmettere che la salvezza di uno è la salvezza di molti. 

 

E se le forze del potere speravano nell’isolamento, in un futuro di sfruttamento polverizzato e silenzioso — dovranno ricredersi: il re è nudo e se sapremo lavorare con concretezza, sempre più persone se ne accorgeranno. 

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